domenica 24 gennaio 2010

Ancora nomignoli: Illipilli, Maggiolino e Ninnola

Da mio padre arrivano fantastiche storie, che trovo regolarmente in mail insospettabili. Lui vive costantemente connesso e la rete è la sua casa. Altro che digital native e hacker di ultima generazione. E così nella posta trovo un nuovo capitolo.

“A mano a mano mi stanno tornando alla mente tanti altri nomignoli di famiglia. Mia madre, che si chiamava Hildegarda, era chiamata dal marito Illipilli; mio fratello Mario, ch'era nato a maggio, era chiamato Maggiolino - il nome, graziosissimo, glielo aveva imposto la nostra governante Giuseppina, donna di buona cultura; il mio, sempre inventato da Giuseppina, era - e me ne vergogno assai! - Sasarone (chi sa poi perché?).

Ma il più noto, tanto da annullare praticamente il vero nome di battesimo (credo perfino sui documenti ufficiali), era quello di Ninnola, l'unica mia cugina prima italiana (in Austria ne avevo tre maschi e tre femmine), che certo tu ricordi: la madre di Valeria e Mauro. Pochissimi sanno che il suo vero nome era Immacolata, probabilmente in onore della Zia Tràcola o Babà. Quando nacque, da mia Zia Valentina, la sorella maggiore di mio padre, e dal marito zio Alfredo, si discusse molto circa il nome da imporle: piano piano si andò affermando quello, poi prescelto, di Immacolata appunto; però vi erano delle fiere resistenze, perché si diceva che fosse troppo lungo: ma una saggia comare osservò: ‘E che ce vo'? Si 'Mmaculata ve paretroppo luongo, vui chiammatela 'Mmaculatina!’ E invece poi si scelse Ninnola, o, meglio ancora, Ninnolina”.

Nomignoli: “Pezzetto di burro” poi diventato Bubi, Gucki

La storia del soprannomi non mi lascia indifferente, soprattutto perché penso di ricordare che mio padre ne aveva più di uno. Così gli scrivo: “Ma scusa, papà, tu non avevi anche un nomignolo in tedesco inventato dai tuoi parenti viennesi? Una cosa tipo "pezzetto di burro", o roba del genere. Ricordo di aver visto non so dove una foto in cui tu avrai potuto avere 3 o 4 anni, hai dei pantaloncini di pelle corti tirolesi e una faccetta tenera e ingenua. La zia Titi Lehne una trentina di anni fa deve avermi rivelato che allora per loro eri "pezzetto di burro". Ma di che anno era Titi Lehne?”

Mio padre risponde rapidamente: “E' vero, mia madre mi chiamava ‘Bubi’: non so se viene da Butter=burro. Però è un nomignolo comunissimo nei Paesi di lingua tedesca, addirittura banale. Invece è molto bellino quello femminile, pure diffuso ma meno, di Gucki, che viene da gucken=guardare, e si dà alle bambine che hanno occhioni grandi. Il vero nome di mia cugina Gucki è Rudolfine, dalla nostra comune nonna Rudolfine Wueste, olandese ma di origine hannovrana, madre di mio zio Fritz padre di Gucki (e di mia madre, ovviamente). Gucki è la sorella minore di Evi, moglie di John Mitchell, e di Fritz, morto tragicamente (forse uccisosi), padre naturale (e poi adottivo) di Michi, che è l'unico rimasto nella casa avita della Christallniggasse, 9 a Baden vicino Vienna.

Dei parenti Wueste l'unica con cui sono ancora in contatto è Dori Gelletti nata Wueste, figlia di zio Fritz Wueste, cugino primo di mia madre. Dovrebbero esserci da qualche parte ancora dei Kemperling: la sorella di Fritz Wueste, Anna detta Antschi (pron.: Anci) aveva sposato un tal Kemperling, che aveva una fabbrica di carte da gioco, forse a Maria Woerth, sul Woerthersee in Carinzia. Credo di ricordare che una volta che, con mamma, ci trovavamo appunto a Maria Woerth, nel pittoresco cimitero trovammo delle tombe di certi Kemperling.

Titi (Mathilde) Lehne – primogenita della prima sorella di mia madre, Elsa, sposata al Freiherr (Barone) Fritz Lehne Lehnsheim - era poco più piccola di mia madre, che era del 1889: quindi doveva essere di poco dopo il '900. I suoi fratelli minori erano Heina (Heinrich), marito di Steffi, senza figli, e Friedel (Friedrich), marito di Inge Reut-Nicolussi e padre dei famosi gemelli Andreas e Stefan e del terzo, Christoff. L'origine dei Lehne è leggendaria: proverrebbero dagli amori (illegittimi, ma molto romantici, ammettilo!) di un Sovrano, non si sa più (o io non so) di quale Paese, con una bella viennese, ai tempi del Congresso di Vienna” ...

Anche io replico presto: “No, papà, non mi riferisco a Bubi, che penso stia solo per ragazzo. C'è un modo di dire ‘pezzetto di burro’ in tedesco che usavano a Vienna per te quando avevi pochi anni. Titi Lehne mi disse che tutti ti chiamavano così. Come suona in tedesco "pezzetto di burro"? Ho un vago ricordo del suono, ma sono assolutamente certa della cosa”.

La reazione è quasi immediata: “Di questa storia del pezzetto di burro non so niente, comunque potrebbe dirsi Buetterchen o Buetterlein”.

Un antico fidanzato della madre di mio padre

Continua lo scambio di mail con mio padre su storie di famiglia che nessuno ha più toccato da parecchi decenni.

“Titi Lehne era la persona che era con tua madre nel viaggio da Trieste a Lussino in cui si conobbero la nonna e il nonno nel '24? Ed era sempre lei che fu molto innamorata di un fidanzato della nonna? Non mi ricordo bene questa storia, ma devo aver orecchiato che la nonna molti anni prima di incontrare il nonno ebbe un grande amore che non poté sposare per non so quale motivo. Sai niente di tutto questo? Devo aver sentito raccontare qualcosa alla nonna, una cosa tipo: ‘E lui mi dichiarò il suo amore in quel piccolo cimitero e ci baciammo e ci baciammo’. Deve essermi rimasto in memoria perché mi fece molta impressione questa cosa del cimitero, ma diciamo che eravamo in pieno romanticismo e culturalmente la cosa dovrebbe essere corretta”.

La risposta di mio padre non si fa attendere: “Non credo che Titi - che, pur essendole nipote, era diventata l'amica più cara della nonna dopo che la compagna da questa più amata, Tehzi Daal, che si era appena sposata con un elegantissimo ufficiale di cavalleria originario della Galizia (Polonia austriaca) morì di tisi (anche questo, molto romantico) - stesse con lei quando andò a Lussino da suo zio Florio, il padre di Fritz Wueste e nonno di Dori, ed incontrò mio padre. Che Titi fosse stata innamorata di un fidanzato della nonna non ne so nulla, però comunque rimasero legatissime fra loro per tutta la vita. Il ‘fidanzato’ - non credo che ci fosse mai stato un vero fidanzamento, ma certo la nonna ne era stata molto innamorata - si chiamava, credo, Heinz Schmitz. Era musicista e poeta. Io ricordo ancora una sua canzone, che la nonna qualche volta cantava. Dopo la 2a guerra mondiale, quando fu ricostituita la Repubblica Austriaca e poi fondata la Repubblica Federale Tedesca, so per certo che fu per qualche tempo ambasciatore austriaco a Bonn: lo era sicuramente quando andai la prima volta a lavorare in Germania come Gastarbeiter, cioè nel 1954. La nonna ruppe indignata il quasi-fidanzamento perché una volta lo vide che accompagnava un'altra ragazza nel tram da Baden a Vienna. Altri tempi!”

Ci sono sempre stato circuiti di comunicazione femminili e allora chiedo a mio padre di verificare con mia madre se lei sappia niente di tutta questa storia. La risposta è netta: “Neanche mamma sa nulla dell'innamoramento di Titi per un fidanzato della nonna, mentre è sicura che la nonna fosse sola quando andò a Lussino e conobbe il nonno. L'affetto di Titi per il nonno Guido non credo, quindi, che avesse origine da questa testimonianza al nascere dell'amore dei nonni a Lussino”.

Uno scellino per un marito?

Ormai mia padre ed io siamo impegnati in un ricco scambio di messaggi su vicende di famiglia. Io continuo: “C'è un'altra cosa che vorrei chiederti: dov'era il monastero dove la nonna promise avrebbe portato uno scellino se avesse trovato marito nell'anno? Sai niente di questo?”

Mio padre risponde: “Anche di questa storia del convento non sappiamo niente né mamma né io: mi pare un po' strano, perché la nonna, fino alla vigilia del matrimonio, era stata luterana. Si convertì al cattolicesimo solo perché allora non era consentito a un cattolico di sposare un'acattolica (mentre una donna cattolica poteva sposare un acattolico); e quel tipo di promesse mal si attaglia a una luterana. Comunque, ammesso che la cosa sia accaduta dopo la conversione, mi vengono in mente due grandi conventi veneratissimi in Austria: Heiligenkreuz, non lontano dalla tragicamente famosa Mayerling (e da Baden), dunque nel Wienerwald (il famoso "Bosco Viennese" del valzer di Strauss figlio G'schichten aus dem Wienerwald, in italiano: Storie dal Bosco Viennese), e la celebre abbazia benedettina di Melk, nella Wachau, di cui parla Umberto Eco nelle prime pagine de Il nome della rosa”.

La parola è ora a me. “Eppure io questa storia me la ricordo e non posso averla immaginata. Della presenza di Titi a Trieste non sono sicura, mentre sono sicura della promessa dello scellino. Era una cosa tra il serio e il faceto, ma non irriverente. E credo che la nonna abbia poi portato lo scellino al monastero. Penso fosse Heiligenkreuz, ma non abbiamo più nessun a cui chiedere conferma?”

Netta la risposta di mio padre: “Temo proprio di no”!

Ischia nel 1939

Ricevo da mio padre: “Il nonno era un uomo di un'amabilità, simpatia e senso dell'ospitalità eccezionali, ed era adorato da tutt'i parenti austriaci, che regolarmente venivano a passare periodi da noi a Napoli (avevamo una grande stanza per gli ospiti) o a Forio d'Ischia, dove andavamo d'estate in villeggiatura (mentre zia Valentina, la nonna di Valeria, con la famiglia andava d'estate a Resina, oggi Ercolano). L'estate del 1939 erano da noi a Forio zia Christel, sorella nubile della nonna, ed Evi, figlia di zia Elsa, quindicenne che aveva appena fatto la Confermazione (la Cresima dei luterani). Le cronache riferiscono che tutt'i ragazzi della spiaggia di Forio caddero in ginocchio davanti a questa stupenda viennesina, credo a cominciare da Massimo Ferraro. (Massimo ed Evi si sarebbero rivisti a Roma, a casa nostra, nei primi anni '80, quindi oltre quarant'anni dopo). Lo scoppio della 2a guerra mondiale - settembre 1939 - ci costrinse a rientrare a Napoli, da dove le nostre ospiti rientrarono in treno a Vienna. Questo ritorno anticipato da Forio è uno dei miei primissimi ricordi - non avevo ancora cinque anni - sgradevolissimo, naturalmente.
Ischia: La spiaggia degli inglesi - 1941
A Forio abitavamo una bellissima casa barocca di proprietà di tale donna Brigida Capuano, di fronte al ‘Torrione’ che allora ospitava una pensione, dove alloggiavano i parenti e amici in visita che non trovassero spazio da noi; ma zia Christel ed Evi stavano da noi”.

Ischia: Bagnanti - 1942


Zia Babà

Ancora un racconto di mio padre. “Cara, voglio parlarti ancora di mia Zia Immacolata, da tutti amatissima per la sua dolcezza, e perciò chiamata Zia Babà (da ragazza, Tràcola). Aveva un carattere mite, sdrammatizzava tutto ed era sempre in pace con se stessa e con il mondo.

Una volta, quando da ragazzina frequentava quella che allora si chiamava Scuola Normale, che era l'istituto solitamente frequentato dalle fanciulle delle buone famiglie, poiché non brillava per diligenza negli studi, era stata rimandata a ottobre in non so più quante e quali materie. A quei tempi - siamo prima della Prima Guerra Mondiale - la famiglia di mio nonno possedeva un "casino di delizie" (absit iniuria verbo!) a Pozzuoli, dove passava tutta l'estate ed anche oltre, servendosi i suoi membri della storica ferrovia Cumana per andare e venire da Napoli. Anche Babà - allora ancora chiamata Tràcola - si servì della Cumana per andare a sostenere gli esami di riparazione, che si sarebbero dovuti prolungare per alcuni giorni. Nella tarda mattinata, o forse nel primo pomeriggio, ritornò a Pozzuoli e da lontano salutò la sua mamma - la mia Nonna Matilde - che l'attendeva trepidante sul balcone di casa, gridando raggiante: "Una bellissima notizia, una bellissima notizia!" La bellissima notizia era che era stata già bocciata alla prima prova: "Che gioia, così domani non devo tornare a Napoli!"

Una sola volta l'ho vista molto tesa. Era morto non so più quale parente, e doveva scrivere alla vedova un biglietto di condoglianze. Chiese, dunque, aiuto alla sorella Maria (Mimià o Mime), colta e di facile penna, la quale scrisse un bellissimo biglietto: "Cara ..., sono molto addolorata per la dipartita del tuo sposo diletto, e pregherò per lui". Ma a Babà non stava bene: "No, Marì, nun me piace!" "Ma perché? Guarda che è una bella missiva". "No, no e no!" "Ma almeno dimmi perché!" "Marì, 'o bbuò sapé? Nun me voglio 'mpignà!" Temeva, infatti, che avrebbe dimenticato di recitare le promesse preci per il defunto, e non sarebbe stato corretto.

Tràcola, comunque, aveva una grandissima dote: era un'eccellente marinaia, e mio padre la portava molto volentieri con sé quando usciva per mare con la sua famosa barca Zizià (si vantava ancora, tantissimi anni più tardi, che ai suoi tempi era la più bella barca di Pozzuoli). Le eccezionali doti marinaresche d'Immacolata ebbero una definitiva consacrazione quando una volta, vedendo dalla finestra della villa di Pozzuoli una nave da guerra che dirigeva verso Napoli, e sembrandole che si tenesse troppo a terra, cominciò a urlare: "Ma chillu capitane è pazze? Vo' purtà 'o bastimento a perdere?"; e non si dava pace! Più tardi il Padre, Antimo Maria Luigi detto Luigi, tornò (con la Cumana, naturalmente) da Napoli, e riferì: "Ma sapete ch'è successo? L'incrociatore SAN GIORGIO s'è incagliato sulle secche della Gaiola, fuori Marechiaro!" Correva l'anno 1911 ... Il comandante, capitano di vascello Albenga, finì sotto processo, invece Zia Babà vantò quella sua intuizione per tutta la vita! T'invio, a parte, un giornale dell'epoca, dove però non si parla di Tràcola”.



Il piroscafo Principessa Mafalda nel 1911

Unisco il link speditomi da mio padre - http://emeroteca.provincia.brindisi.it/La%20Citt%C3%A0%20di%20Brindisi/1912/A.%2013,%20n.%2002%20(14%20Genn.%201912).pdf- e un’immagine del piroscafo Principessa Mafalda del 1911, che forse non ha alcuna connessione, ma in rete è tra le 2 o 3 immagini che si trovano cercando Napoli 1911.

domenica 17 gennaio 2010

L’anno della tigre

Il 2010 sarà l’anno della tigre secondo l’oroscopo cinese. Non lo ha messo nero su bianco una rivista di astrologia, ma il quotidiano La Stampa. Ha scritto in prima pagina: “L’anno della rivincita”, sottolineando che “Per i cinesi il 2010 sarà l’anno della tigre, simbolo di forza e fertilità. Per gli abitanti della Terra, che ad aprile diventeranno sette miliardi, dovranno essere i dodici mesi della rinascita dopo la stagione della paura e della recessione”. E se tutto questo non bastasse “Secondo l’Economist stanno per cominciare i ‘tenaci Anni Dieci’, un’era di nuovo ottimismo su cui non possiamo che scommettere tutti”.
La Stampa - prima pagina del 24 dicembre 2009

Tra il crederci e il non crederci ho deciso di seguire una terza via: ricordarmelo e lavorarci per quanto possibile. Ho staccato la pagina e con due puntine l’ho fissata sulla porta dell’armadio alla mia sinistra. La tigre mi guarda da lì e mi fa compagnia.

Romanticismo e pranzetti

Ricevo da mio padre:
“Per la tua raccolta di aneddoti familiari, ti voglio raccontare questa bella storiella. Mio padre Guido - un avvocato napoletano come, del resto, il tuo nonno materno – prima di sposarsi (piuttosto tardi: a 46 anni) era stato, per i suoi tempi, un grande viaggiatore, ma anche un grande tombeur de femmes. In uno dei suoi viaggi aveva avuto occasione di conoscere una signorina triestina, sorella di un allora celebre scrittore. Fra i due era sorta una disputa circa la rilevanza del cibo in un contesto romantico: la “mula” si dichiarava decisamente contraria, ritenendo che il solo parlar di mangiare fosse una volgarità.

Un bel giorno la signorina, forse con qualche mira matrimoniale, si presentò a Napoli en touriste, e tuo nonno ritenne - gradendolo molto! - suo dovere di farle da cicerone; però pensò che fosse giunto il momento di riaffermare il proprio punto di vista sulla vecchia querelle. Dunque, la povera triestina fu trascinata sul cavallo di San Francesco per tutti i moltissimi luoghi di Napoli degni di essere visitati, completando – sempre a digiuno – il giro con un’ascesa alla collina di Posillipo. Finalmente, quando era ormai esausta e mezza morta d’inedia, papà la portò all’allora leggendario “Scoglio di Frisio”, dove la incauta “mula” s’ingozzò di leccornie napoletane fin quasi a sentirsi male!

Quale fosse stato, poi, il guiderdone per questa vittoria morale di tuo nonno, le cronache non lo tramandano”.

venerdì 15 gennaio 2010

Passeggiare placa


“Dove vai?” Giuliana mi ha fermata a Piazza Venezia, quasi all’inizio di Via dei Fori Imperiali. “Vuoi proprio sapere la verità?” Mi guarda pronta a catturare una confidenza privata. “Passeggio”. Mi fissa con l’espressione di chi si sente preso in giro. “Sì, lo so che è incredibile, ma è così. Ho deciso di provare ad infilare nella giornata uno spazio anche molto piccolo per una passeggiata. È tutta colpa di Pietro Citati. L’altro giorno è uscito in prima pagina di ‘Repubblica’ un suo lungo editoriale con il racconto delle passeggiate quotidiane e sono rimasta folgorata”.

Roma - Via dei Fori Imperiali

La posizione di Citati è semplice: “Per almeno quarant’anni, ogni giorno alle 14 uscivo di casa”. Il percorso prevedeva sempre Villa Borghese. “A volte – continua Citati – proseguivo fino al Pincio, scendevo a Piazza del Popolo, e mi inoltravo fino a Piazza Navona. Non era lontano. Col mio passo da vecchio piemontese ci mettevo non più di quarantacinque minuti”. Ma non finisce qui, perché Citati spiega anche chiaramente gli effetti di tutto questo. “La passeggiata pomeridiana aveva, per me, un’importanza capitale. Mi riposava, mi irrobustiva, mi dava calma e quiete. Soprattutto cancellava tutti i pensieri della mattina: la mia mente diventava vuota: si compiaceva di essere vuota; e cominciavano a nascere altri pensieri, che lentamente si formavano, costruivano un’architettura, nella quale sarei vissuto il pomeriggio e la sera. La giornata diventava nuova”.

Ho scoperto poi che c’è una ricerca inglese, secondo cui in Europa tutti camminano meno di dieci anni fa (Repubblica 13 gennaio 2010, Passeggiate – Stanchi, soli, pigri non c’è più tempo di girovagare. Di Enrico Franceschini). E allora sto provando a fare quello che posso per ripristinare un segno di civiltà. Sono certa che Giuliana non mi ha creduto. E sinceramente anche io ho qualche dubbio che riuscirò a rispettare l’impegno di regalarmi ogni giorno almeno una passeggiatina di una mezz'ora. Ma ci provo.

Se una notte a San Paolo…

“Allora che ne pensa di questa missione? Tirando le somme, come le sembra sia andata?” Autunno, inizio novembre a San Paolo del Brasile, sono in macchina a fianco all’autista, mentre dietro siedono il capo e sua moglie. È notte fonda. La giornata è stata lunga e piena. Solo in serata, a chiusura degli impegni, siamo stati nell’ordine ad una mostra sul design italiano, ad un concerto, ad un cocktail e ad una manifestazione per la Mille miglia con cena finale. Io sinceramente sono distrutta, mentre il capo e sua moglie che hanno da un po’ superato i settanta sono freschi come fosse mattina. Il capo è soddisfatto: “Mi sembra che sia andata molto bene, vedo un miglioramento costante nella messa a punto dei nostri obiettivi”.

Dal lavoro passiamo alla vita di tutti i giorni, figli e nipoti compresi. Parliamo serenamente, girando per San Paolo nel cuore della notte. Io il giorno dopo ripartirò per Roma, mentre il capo e sua moglie andranno a nord, a Baja. Chiacchierare in auto ci fa sentire in una dimensione casalinga. L’atmosfera è confortevole e familiare. È come essere in una piccola navicella con intorno il vuoto siderale. Arriviamo in albergo e la moglie del capo dice tranquillamente in italiano all’autista brasiliano: “Roberto, visto il traffico di questa città, penso che sia meglio se domani ci vediamo un po’ prima. Diciamo alle 8 meno dieci”. Roberto le conferma con un ricco giro di parole che probabilmente è una buona idea, naturalmente in brasiliano. Entriamo nel grande albergo, ci salutiamo e prendiamo i diversi ascensori che ci competono per arrivare ai nostri piani. L’atmosfera è un po’ dimessa, buia, ma in fondo siamo alle 3 di notte.


Blackout in Brasile

Il giorno dopo, molto presto al mattino, mi telefona mio padre: “Allora com’è andato questo enorme blackout che ha lasciato al buio per ore il Paese? Effetti evidenti? Pare che ci sia stato un picco di azioni criminali”. Rispondo tranquilla: “Veramente non me ne sono quasi accorta”. Il dubbio di essere stata nel centro del caos e dell’attivismo criminale senza nemmeno rendermene conto mi resta in testa come un tarlo e così, mentre vado all’aeroporto, chiedo all’uomo che guida il taxi la sua opinione su che cosa sia successo durante il black out (http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200911articoli/49297girata.asp). La risposta è lunga e colorita, ma mi dà l’idea che sia un po’ troppo strutturata. Insomma, sono certa che l’autista dormisse nel cuore della notte. Credo che però si sentisse in dovere di raccontarmi tutto quello che la sua fervida immaginazione riuscisse a mettere insieme per non deludere l’osservatrice forestiera.

Nomignoli di famiglia

Ricevo da mio padre:
‘Cara, l'uso invalso di chiamare i nostri bambini con dei diminutivi - Costi per Costanza, Jak per Jacopo, Tom per Tommaso, Ame per Amerigo - mi ha fatto ritornare alla mente che in famiglia Ferraro era diffuso l'uso di nomignoli. Qualcuno me lo ricordo ancora, naturalmente per tradizione orale. Cominciamo da mio padre Guido: poiché da ragazzo era molto facile all'innamoramento, fratelli e cugini usavano chiamarlo Co', da Cotto, per le cotte che continuamente si prendeva. Però, poiché alla delusione amorosa seguiva in genere una crisi mistica, e diceva di voler farsi prete, in tale fase lo chiamavano Pre'. Le sue sorelle Maria e Immacolata erano Mimià e Tracola, quest'ultima poi divenuta Babà per la sua dolcezza.

Nella generazione precedente c'erano state Ziarà (da: "Zi', 'o tarallo!", invocazione dei nipoti), Zizià (che regalò a mio padre la da lui amatissima barca che si chiamò, appunto, "Zizià") e Zia Tonì (Cleonice, madre di Augusto, Decio; Sara ecc.). Ma forse il più celebre soprannome fu quello imposto a mio zio Mario. Questi era il più piccolo di tutt'i fratelli e cugini, per cui nelle battaglie gli toccava sempre la parte dell'Abissino (si era in piene guerre coloniali), e di costoro il più celebre era Ras Mangascià; da cui: Scianiello. Questo soprannome lo seguì per tutta la sua lunga carriera militare, che si concluse con il grado di generale di divisione. La riprova ne è data da uno specifico episodio. Una volta Zia Sara, che a aveva avuto vari fratelli ufficiali di carriera (dei quali tre caduti nella prima guerra mondiale), ed era rimasta fino alla fine un'inguaribile monarchica, si recò in pio pellegrinaggio a Cascais, a rendere omaggio a Umberto II di Savoia, colà in esilio. Nel salutarlo ebbe a dirgli: "Sono la sorella dei colonnelli Renato e Decio Ferraro del Regio Esercito, che Vostra Maestà ha forse conosciuti". "No, signora, ma ho conosciuto e frequentato il generale Mario Ferraro, detto Scianiello, già mio collega in Accademia". Insomma, un titolo confermato con rescritto reale.
Ciao – papà’

Impossibile per me restare indifferente a tutto questo. Ho provveduto quindi a scrivergli: “Splendido, davvero splendido papà”. Laconica la sua risposta: “Vabbuò, nun esaggeramme! Papà”.