domenica 20 settembre 2009

Le città perfette. E quelle di cui non potrei fare a meno.

“Scusa, ti ricordi che quest’estate abbiamo parlato delle città che preferivamo? Qual’era la tua?” “Praga, Praga”, scandisce mio padre. Dal telefono la sua voce arriva chiara e forte, con quella erre arrotata che aiuta a trasformare due parole in una dichiarazione di principio. “Ma ti riferisci solo all’Europa,vero?” “Sì, più o meno, un po’ più di Italia e un po’ meno di mondo. Io continuo a pensare che al primo posto ci siano pari merito Venezia e Istanbul. Subito dopo San Pietroburgo”.

Venezia. Prendere il sole alle Zattere in autunno inoltrato o all’inizio della primavera, andare a bacaro in una sera fredda di gennaio, fare il bagno davanti al Des Bains a settembre il giorno prima che apra la Mostra del cinema. Ed anche mettersi gli stivali di gomma per girare con la prima acqua alta oppure mangiare un piateo di sarde in saor.

Istanbul. Fare la spesa al bazar egiziano, prendere un battello la domenica e andare a pranzo in Asia, attraversare il ponte di Galata e guardare il Bosforo, fare un giro dentro Hagia Sophia e stare seduti sui tappeti della Moschea blu. Ancora, riuscire a farla franca con i cani veri signori e padroni della città e mangiare baklava senza pentimenti.

C’è una linea comune di perfezione che lega Venezia e Istanbul. È un po’ come se l’una rimandasse all’altra e si rafforzasse, richiamando le emozioni di quello che viene solo immaginato perché è proprio dell’altra. Forse è sempre stato così. Tra Istanbul e Venezia si srotola la storia raccontata da Jason Goodwin ne “Il ritratto Bellini”. Un bel giallo, misterioso e avvincente. E Costantinopoli è un po’ più Costantinopoli perché c’è Venezia ed è vero anche il contrario. E mi è venuto un bisogno di Venezia… Ho risolto comprando “Corto Sconto. La guida di Corto Maltese alla Venezia nascosta” di Guido Fuga e Lele Vianello, ma in fondo soprattutto di Hugo Pratt, visto che si tratta di sette itinerari che i tre amici facevano insieme. Ogni tanto finivano in una corte sconta, ossia nascosta, e sempre ma proprio sempre in un’osteria.

Accanto alle città perfette ci sono le altre. Soprattutto quelle di cui non potrei fare a meno. In questa categoria metterei Roma, Napoli e New York. La prima perché è ormai la mia città, la seconda perché sarà per sempre il posto da dove vengo. E New York che è il posto dove vorrei andare a stare per un po’. Non è Europa? Beh ma non ci si può fermare…un po’ di progetti li si deve pur fare.

sabato 19 settembre 2009

Elisabetta è bisnonna. Di nuovo.

“Ma con te è scoppiata a piangere?” Guardo Gianfranco dubbiosa: “Scusa ma chi?” “Beh allora non hai incontrato Elisabetta”. “Ma sì, l’ho vista sotto casa. Le ho anche dato un regalino per il suo compleanno”. “E non ti ha detto niente?” Penso e ripenso ed effettivamente ad un certo punto ha cominciato a parlare molto più piano, due toni sotto, e mi ha detto che sua nipote aspetta un bambino. Ora, visto che lo scorso anno la figlia di sua figlia a diciassette anni le ha dato un nipotino capisco che è un po’ provata. Anche io ho cominciato a parlare sotto tono e le ho chiesto: “Ma la stessa dello scorso anno”. “No, la figlia di mio figlio. Non sto a raccontarti la storia”.

Insomma, la storia a grandi linee me l’ha raccontata. Ma eravamo per strada, con altra gente, non poteva lasciarsi andare. Invece con Gianfranco ha dato fondo a tutta la sua angoscia. Con me invece per strada ha tirato fuori le foto del suo bisnipotino, davvero carino. E io le ho detto: “Vedrai che il prossimo anno il momento difficile sarà passato e avrai le foto di tutti e due i piccolini”.

Perché diciamocelo, a me le nipoti di Elisabetta sono davvero simpatiche, con questa cosa del fare figli nel mondo perché è del mondo che sono figli. E questo post è dedicato a loro e soprattutto a chi sta per arrivare.

domenica 6 settembre 2009

Se un’arancia ti cambia la vita

“A casa dei miei nonni si parlava in dialetto, mentre a casa dei miei genitori non era permesso. Mio padre non ha mai voluto”. Siamo a pranzo a Milano ad inizio agosto. La tensione degli ultimi impegni si stempera con piccole storie. Sono a una colazione di lavoro, l’ultima prima della pausa estiva. Chi racconta è il sostanziale padrone di casa. Facendosi due conti suo padre dovrebbe essere nato tra fine ‘800 e l’inizio del 1900. “La storia è semplice – ci dice - la mia era una famiglia di media borghesia. A casa si parlava in dialetto. All’esame di quinta elementare di mio padre una delle domande prevedeva che si scrivesse il nome di un frutto invernale, rotondo, con la buccia ed all’interno spicchi. Mio padre non riuscì a trovare un altro termine se non portogallo. Non riuscì proprio a scovare un altro modo per definirlo. Fu bocciato all’esame di quinta elementare e non ha mai consentito che noi, suoi figli, parlassimo in dialetto”.

Il modo di dire mi è familiare. Anche in napoletano, il mio dialetto-padre, si dice purtuallo. A una lingua-madre spesso si accompagna un dialetto-padre. Faccio una ricerca in rete e scopro sul sito della Treccani che: “portogallo nel senso di ‘arancia’ è disusato in italiano (anche se resiste in alcuni dialetti), ma si conserva in greco moderno portokáli e in turco portakál” (http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/speciali/mondo/rossi.html). Quasi ovunque in Italia la parola è d’uso comune nei dialetti (http://www.alimentipedia.it/Frutta/Frutta_arancia.html).

Poi su wikipedia leggo che “Nella letteratura del secolo XIX a volte l'arancia viene chiamata portogallo”. E su altri siti che “in italiano, portogallo è un altro modo per dire arancia” (http://www.nomix.it/rubrica_toponomastica.php?puntata=8). Insomma,metti che un’arancia ti cambi la vita. Che abbia effetto anche sui tuoi figli. E che magari avevi ragione.