domenica 29 marzo 2009

Evochiamo Beppe mangiando cotoletta. In centro a Milano.

“Io vorrei una cotoletta”. Il cameriere guarda Silvia e poi me. La cena di lavoro è più o meno definita, ma margini di manovra ci sono sempre. “La costoletta alla milanese è una cosa serie – sottolinea l’uomo - se me la chiede uno solo si può anche fare, ma se devo prepararla per tutti non riesco”. Sono dalla parte di Silvia, un minimo faccio pendere la bilancia e insomma la cotoletta arriva. Siamo in centro a Milano. Metà febbraio freddo. È sera e noi siamo qui dentro al caldo della Trattoria milanese a mangiare cucina lombarda. Si sta magnificamente tra risotti allo zafferano, osso buchi, costolette alla milanese, certe polpettine deliziose che chiamano mondeghili, trippa e affettati mantovani. Mi piacciono soprattutto delle polpette un po’ lunghe avvolte in una foglia di verza che si mangiano con il risotto. Un bicchiere di rosso in più ci scappa.

Quando il fato decide di farti un regalo. Avrei barattato con piacere con una serata tutta per me questa cena di lavoro con più di trenta persone. E avrei sbagliato alla grande perché mi sarei persa qualcosa. Conoscevo da tempo tutti, tranne Silvia. Entra e le vado incontro dicendole il mio nome e lei tranquilla: “Sono una ventina d’anni che ogni tanto Beppe mi parla di te, sapevo ci saremmo incontrate prima o poi”. Sorrido e la catturo, dandole la sedia vicina alla mia. Intorno regna sovrana la conversazione di lavoro. Noi ogni tanto ci immergiamo, ma poi ci ritagliamo degli spazietti per metterci in pari su cose degli ultimi vent’anni. La connessione è Beppe.

“Mi ricordo quando me lo presentarono – dice Silvia – un tipo davvero intelligente, l’ultimo allievo del Professor Barile. Tu quando l’hai conosciuto? E hai sue notizie?” Non riesco a risponderle subito perché vengo fatta prigioniera da una conversazione di lavoro che va avanti alla mia destra in cui entra anche Silvia. Il tema pubblico si esaurisce, mi volto verso di lei e continuo con quello privato. “Firenze vent’anni fa. Ero lì con una borsa di studio e Beppe faceva il ricercatore a Fiesole all’Istituto Universitario Europeo. Un bel tempo. Organizzava con la sua fidanzata feste molto riuscite nella sua casa. Un posto molto carino, un appartamento in una villa tra Firenze e Fiesole. Un po’ di anni dopo, non mi so più come ne’ perché, sono stata sua ospite a Londra. Viveva con amici e mi ricordo passammo un pomeriggio a comprare un wok per cucinare cinese. Era lui il cuoco, ovviamente. Poi ci siamo ritrovati a Roma. Gli ho fatto conoscere Gianfranco e lui a me Carmela. Ora vive in Cina, dove ha portato tutta la famiglia. Sai, ci sono fatti sicuri. Uno di questi è Beppe. Passano anni senza che ci si sente, poi a un certo punto ricompare”.

Chiacchieriamo e proviamo ad evocarlo mandandogli un sms sul suo vecchio numero italiano. Sarà disattivato, ma hai visto mai… Nessuna risposta, nessun segno per sette giorni. Una sera Gianfranco mi chiama dall’altra stanza: “ma sai chi mi ha chiesto l’amicizia su Facebook? Beppe”. “Sapevo sarebbe successo – gli dico – Silvia ed io lo abbiamo evocato e lui ci ha risposto”.

Vedrò Silvia ad aprile. Nuova occasione di lavoro, ma stavolta tenterò di ritagliarmi una intera serata. Abbiamo cose importati da inventare e nuovi riti da mettere a punto. Hai visto mai…

giovedì 26 marzo 2009

Due sedie per mio padre.

Ricevo da mio padre.
"La storia delle due sedie mi ha ricordato un aneddoto su Libero Bovio che probabilmente hai già da me sentito: figlio di un grande economista, Giovanni, cui è intitolata la piazza che a Napoli usiamo chiamare 'della Borsa' (anche se la Borsa non esiste più), era afflitto da una grassezza enorme, motivo per il quale, probabilmente, non proseguì gli studi pur essendo dotato di brillante intelligenza, ma preferì dedicarsi alla poesia dialettale e ai testi di canzonette. Era talmente grasso che gli occorrevano due sedie per sedersi. Sposò la moglie conquistato dal fatto che una volta questa ragazza gli disse: 'Liberà, ma po' nun è overo ca si chiatte!'"

domenica 22 marzo 2009

Portiamo Carla in ospedale. Al centro della notte.

“Secondo te sta morendo?” Sono seduta vicino a Carla e guardo il vecchio disteso sulla barella. “Mi pare ‘mbriaco – mi dice Mario – russa che è una meraviglia”. Il vecchio si gira, cambia tonalità e russa un po’ più forte. Siamo qui, in questo ospedale romano nel centro della notte, Carla, Mario, Adriano ed io. Lei si è sentita male al temine di una serata-evento. Stavo andando via e l’ho trovata accasciata su una poltrona con qualcuno che le teneva la mano. Un dolore le stringeva il lato sinistro del torace e scendeva inesorabile lungo il braccio. Ok, Carla è una donna e almeno fino ad ora siamo state un po’ più protette. Ma la preoccupazione corre sul filo della stanchezza. Insomma, quando Mario l’ha convinta ad andare in ospedale ho deciso di accompagnarla anche io. Poi ci ha raggiunto Adriano.

Sono seduta vicino a lei, che soffre in scarpe coi tacchi e abito elegante. Se sopravvivi a un’emergenza notturna in un ospedale romano sei davvero sano. Dopo un’ora Carla mi dice: ”Forse me ne vado a casa”. La guardo e mi vengono solo battute: “Sì è vero, è più comodo e piacevole morire tranquillamente a casa propria”. Anche Mario è sulla stessa tonalità dissacrante: “Mi dicono che il tizio sulla barella dorme spesso qui, forse potrei farmi dare una barella per un sonnellino anche io”. “Smettetela – guaisce Carla – se mi fate ridere mi fa ancora più male”. Adriano si aggira cercando falle nel sistema impenetrabile di accettazione. Non si riesce ad avere un’informazione, ne’ a capire per fatti concludenti se ti chiameranno e quando. Se pensi di esserti fatto un quadro arriva un’altra emergenza e devi ricominciare a definire a che punto sei. Adriano appura che forse Carla ha il cartellino giallo, ma arriva una ragazza sul cui piede una macchina è passata un paio di volte e certamente ha un cartellino rosso.

Due suorine parlano sottovoce in un angolo. Come i carabinieri si muovono in coppia. Parcheggiata su di una sedia a rotelle c’è la suora per cui sono qui. È tranquilla in un angolo, con aghi che le escono dalle mani e l’aria assente. Le due suorine parlano tra loro e non sembra si occupino troppo di lei. L’ubriaco sulla barella si gira e cambia ancora la tonalità del sottofondo musicale. Portano la ragazza con il piede maciullato dalla macchina. Sono con lei il probabile fidanzato americano, che ogni tre parole dice “fuck”, due ragazzi e una ragazza. Una signora con una borghesissima aria radical aspetta di capire cosa è successo al marito infartuato.

Esce un infermiere e siamo tutti intorno a lui. L’unica certezza è che non si può fare alcuna previsione. Mi chiama Gianfranco. Ha tentato di buttare giù dal letto un medico suo amico che lavora in questo ospedale. Il fortunato non rispose. Quando capisco che se resto è probabile mi debbano ricoverare dico a Carla che vado. Il giorno dopo trovo un sms delle 3.15: “Ho finito. Pare non ci sia niente di grave”. Poi la mattina incontro Mario: “Alle 3 ci hanno chiesto di aspettare. Alle 4 hanno fatto l’ultima prova e ci hanno mandato via. Ma certo che non ha nulla, è sopravvissuta a 6 ore in un ambulatorio d’emergenza?”

Pensavo in questi giorni ai libri di cui non avrei potuto fare a meno. Un posto speciale è per Àlvaro Mutis. “Ilona arriva con la pioggia”, “La Neve dell'Ammiraglio”, “Un bel morir”, “Amirbar”, “Abdul Bashur, sognatore di navi”. La forza di raccontare e rapirti. Ma questa ovviamente è tutta un’altra storia.

sabato 7 marzo 2009

Ancora due sedie per Marisa. Il centro dei desideri è spesso alla periferia del bisogno.

“Se mi segui ti faccio vedere gli ultimi acquisti”. Marisa cammina veloce dietro l’uomo di fatica che trasposta ben imballati due vecchi tavolini. Passiamo due saloni di rappresentanza dell’antico palazzo dove tutte e due lavoriamo. L’ho incontrata per caso sul corridoio e non ho potuto fare a meno di dare un’occhiata alle ultime cose antiche che ha comprato. In genere sono sedie. Marisa adora le sedie. Oppure tavolini, che le piacciono abbastanza ma non quanto le sedie. “Devi aver comprato una nuova casa in Sardegna. Quella di tua madre e la tua devono essere davvero piene”. Marisa guarda con amore le sue nuove cose: “Ma figurati, perché dovrei comprare una casa. Non ho i soldi per farlo e comunque non mi serve. E poi un posto per una sedia si trova sempre. Come per un tavolino, d’altra parte. Guarda che belli questi due. Li ho avuti davvero a un buon prezzo. Un vecchio antiquario sta chiudendo e dà via tutto”. Sono anni che ci diciamo più o meno le stesse cose su sedie e tavolini, ma lo facciamo con grande partecipazione. E anche una punta di divertimento.

Continuo: “Poi quello che proprio non arrivo a capire è che tutte queste cose ti piacciono, le compri e le spedisci in Sardegna. Che gusto ci proverai a comprare sedie e a spedirle da un’altra parte. Non ti ci siedi nemmeno. Non le guardi. Le mandi da un’altra parte”. Marisa non mi bada nemmeno, ha occhi solo per i suoi ultimi tesori. E io vado avanti, occhieggiando tra la plastica da imballaggio i due tavolini. “È chiaro che il centro dei desideri è spesso alla periferia del bisogno, ma questa esigenza compulsiva di sedie ha qualcosa di strano. Le compri, ma subito dopo le abbandoni. Immagino che, oltre alle sedie strategicamente piazzate nella casa di tua madre, devi avere un luogo deputato a custodire quelle che ti piacciono di più. Che so una specie di caverna di Ali Baba tutta piena di sedie, oppure una stanza della tua casa dove impilate ci sono quelle che contano per te”.

La sera siamo insieme all’apertura di un evento. Passa per caso un facchino con una pesante sedia sulle spalle. Lo guardo allibita e poi mi volto verso Marisa. Mi sorride: “Guarda che non c’entro. Sta sicuramente andando da qualche altra parte. Non ho comprato sedie oggi”. Segue con lo sguardo l’uomo per mettere a fuoco meglio. “Però sai che non è male”. La guardo ancora più meravigliata. Lei ride: “Ma che cosa hai capito. Dicevo la sedia. È proprio di quelle che piacciono a me. Ancora due sedie e poi smetto”.

Scherzi del destino. C’è chi è dipendente dalla coca e chi dalle sedie. Scherzi per divertirsi. Libri per spassarsi. Divertente e piacevole “Gli scheletri di Via Duomo” di Stefania Nardini. Un giallo semiserio nella Napoli degli anni ’70, dove i ragazzini giocano con quelle diaboliche palline clic-clac, si fuma e si beve molto caffè, Roma è un altro mondo e il protagonista è un eroico cronista del Mattino. Poi certo se uno cerca il pelo nell’uovo il giallo regge poco. Ma non è questo il punto.

Roma, semicentro o quasi periferia. Alta tecnologia e bassa brutalità: grandi contrasti tutt’intorno a casa mia.

“Una carta d’identità elettronica? Ma dove l’hai fatta?” Vitaliano mi guarda allibito. “A Roma – gli rispondo – al municipio di casa mia. Abito vicino alla Caffarella. Succede tutto lì, ormai”. Vitaliano è sempre più meravigliato: “Nel quartiere dove è stata brutalizzata quella povera ragazzina?” “Sì, proprio lì. È strano, in alcuni posti è molto borghese, poi attraversi una strada e sei nella terra di nessuno. Dietro casa mia hanno aperto un supermercato rumeno e gli autobus dalla Romania fermano due strade più avanti. Una volta chiesi a mia sorella di poter contare sulla sua domestica a ore. La ragazza era entusiasta di venire da me, era uno dei pochi posti di Roma che conosceva. Un po’ casa sua. Non lontano c’è anche Via Carroceto, la strada dove hanno fatto quella specie di spedizione punitiva contro quattro rumeni al kebab caffè. Lì dov’è terra di nessuno è come essere al village. Il pasticciere è indiano, poi c’è il kebab caffè e il ristorante siriano. Infine il bar gestito dal ragazzo cinese che si fa chiamare Alessandro. Poco più in là il mercato dell’usato: 1000 metri quadri di garage dove puoi comprare davvero di tutto, dalla lavatrice al divano, passando per la bicicletta e i vestiti di seconda o terza mano.

Vitaliano mi guarda: “E poi al municipio ti fanno la carta d’identità elettronica?” “Sì – gli confermo – e non da ora. Io l’ho fatta nel 2005. Ho anche un codice segreto per poter avere servizi connettendosi dai terminali più vari, ma questa funzione non è mai stata attivata. Insomma, un posto con un sacco di contrasti. Nei giorni prima che prendessero le due belve della ragazzina l’aria era un po’ pesante. Le donne la sera avevano un’aria spaventata. Anche il popolo degli immigrati era strano. Andavano a due a due, come per sentirsi più sicuri. I rom del piccolo campo non si vedevano in giro. Sai, hanno sempre assicurato molta tranquillità al quartiere: per trafficare ci vuole pace intorno, se no ti vengono a controllare. La certezza che i malvagi fossero stati presi è durata poco. Ora, che non si sa se i due arrestati sono davvero le due belve, l’aria è strana”.

Vitaliano è incuriosito: “Tutto nello stesso posto”? “Ma sì, semicentro o quasi periferia, alta tecnologia e bassa brutalità. Grandi contrasti tutt’intorno a casa mia. Dall’altra parte della Via Appia c’è la Valle della Caffarella. Pecore e dolci colline, il fiume Almone, dove a primavera i romani venivano a bagnare gli strumenti musicali, che ora è un rigagnolo abbastanza ferito. Templi romani trasformati in chiese, come Sant’Urbano. Ma anche anfratti dove animali selvatici costruiscono la loro tana in città. Vecchie grotte e fungaie. Una volta ci abbiamo portato dei parigini doc come Serge e famiglia. Non potevano credere che in un posto così centrale ci fosse un pezzo della campagna romana di Goethe e di Piranesi.

Vitaliano continua a chiedere: “E la terribile storia della ragazzina brutalizzata?” E io rispondo: “Ha molto pesato sul quartiere. E non solo perché qualcuno avrebbe voluto menar le mani. Sai è un posto dove la provenienza da paesi diversi è forte. Quando esco la mattina dall’altro lato della strada c’è una lunga fila di uomini che aspettano. Sono uno vicino all’altro, in piedi, guardano la strada e aspettano. Sono lì per un ingaggio anche solo di mezza giornata”. Vitaliano continua: “Ma la vicenda ha pesato su tutti?” “Sì, su tutti”. Una mattina mentre andavamo a scuola la piccola mi ha detto: “Guarda mamma che puoi arrivare solo davanti al vetro della portiera. Non puoi andare più avanti”. Ed io: “Scusa ma perché?” “Mamma non sai che è successo un fatto tremendo? Pensa hanno preso due fidanzati nel parco della Caffarella, al ragazzo hanno dato un sacco di botte e a lei hanno detto che se non lasciava lui la avrebbero ammazzata. E allora sai la direttrice è così preoccupata che nessuno può superare il vetro della portiera Carolina”.

La piccola cresce e io per non perdere colpi leggo anche libri per ragazze. Lei è ora alle prese con la serie delle avventure delle Tea Sisters, cinque topine avventurose legate a Tea Stilton, inviata speciale dell’Eco del Roditore e sorella di Geronimo Stilton. Le avventure sono davvero carine e intelligenti. La piccola ha già archiviato “I naufraghi delle stelle”, ambientato sulla luna, e “Mistero a Parigi”, dove moda e mistero creano un giusto mix. Io, invece, per essere un po’ più avanti ho letto “Destino di Adhara” di Licia Troisi. Fantasy autarchico per ragazzine di abbastanza buon livello. Avevo letto le “Cronache del mondo emerso” e mi era piaciuto. Bella la parte del mondo immerso, che vive sotto campane di vetro. Lo consiglierei per rispondere a quel bisogno di irreale di un adolescente. Ho letto anche una parte delle “Guerre del Mondo emerso”. E il giudizio è meno positivo. Il “Destino di Adhara” invece non mi ha convinto proprio. È immaginato come il primo di una nuova trilogia. È un po’ troppo macabro per adolescenti. Non si può escludere che il livello cresca. Ma da solo non regge.