martedì 15 dicembre 2009

Ottavia Montalto non aveva capelli bianchi

“Ho trovato i tovaglioli con le cifre e le sue camicie da notte. All’inizio non capivo di chi potessero essere. Le lettere OM mi sembravano indecifrabili. Poi mi è tornata in mente Ottavia Montalto, la madre di nonno Alberto”. Mia madre parla con tenerezza: “Questa nuova grande casa a Barbarano mi fa tornare indietro nel tempo. È moderna di ristrutturazione, ma in una costruzione antica. Ho portato qui vecchie casse della casa di Napoli, che forse non si aprivano da cento anni. E c’è una grande emozione nel trovare pezzi di un passato caro, come le cose di Ottavia Montalto”.

Guardo mia madre: “Ma di che anno sarà stata? E hai presente come fosse? Hai mai visto qualche sua immagine oppure sapresti riconoscerla nella cassa delle vecchie foto di famiglia”. Mia madre comincia conti complessi, che mixano date diverse, l’anno di nascita di sua madre e quello di suo padre, per risalire al compleanno di Alberto, figlio di Ottavia e nonno di mia madre. Mi inserisco: “Insomma, sarà stata del 1820”. “Sì, potrebbe essere. Era una donna piccola piccola, molto colta. Mi ricordo che trovammo i suoi libri di inglese e francese. Ha avuto 11 figli e suonava magnificamente il pianoforte. Suo marito Francesco era meno colto e in fondo più rozzo. Quando le cose andavano per il verso storto tra loro, lei si metteva al pianoforte e suonava e suonava. Io lo dico sempre a tua sorella, quando le cose non vanno siediti al pianoforte e suona”.

“Scusa mamma, ma perché aveva sposato Francesco?” “Ah, questo non lo so. Certo, all’inizio lui stava benissimo economicamente e questo forse ha avuto il suo peso. Sono del primo periodo del loro matrimonio bellissime porcellane e cristalli, che certamente scelse lei”. “E com’era?” “Ho visto delle sue foto, ma non credo che me ne siano state date. Saprei comunque riconoscerla. Era piccola, con una grande treccia di capelli che girava intorno alla testa”. “A quanti anni sarà morta?” “Non tanto vecchia, direi 62 o 63 anni. E poi sai, con tutti quei figli aveva avuto una vita complessa. Uno era andato in Francia. Uno si uccise. Zio Peppino, che era il più intelligente, sarebbe voluto andar via per fare l’ufficiale di marina, ma restò a casa per condurre la famiglia. Era lui il sostegno di Ottavia”.

“E invece il padre di tua madre, nonno Alberto?” “Beh, sai lui è sempre stato un “furioso”. Poteva essere preso dalle “furie” e perdere il controllo in maniera totale. Una volta sparò con un fucile alle gambe e un tipo che era entrato nella sua proprietà di campagna, nonostante gli avesse detto più volte di non farlo. Sua madre Ottavia gli fece promettere che non avrebbe mai più preso un’arma e lui per tutta la vita non ha mai più toccato un fucile”. “Mamma, scusa, ma non c’era una storia secondo cui lei era figlia illegittima di un nobile romano”. “Ma, è una vicenda non chiara, che si riferisce al padre di Ottavia, Carlo Montalto. Era lui, che credo fosse figlio naturale di qualcuno molto noto. Ma non so bene questa parte, mentre mi ricordo che si raccontava che Carlo Montalto avesse una bellissima casa a Napoli a Santa Brigida, fosse un grande cavallerizzo e po’ un dandy”.

“È una bella storia, mamma”. Lei mi guarda sorridendo: “E sono belle le sue camicie da notte, che ora uso io qui a Barbarano. Ora che ci penso anche tu hai qualcosa di Ottavia Montalto. Lei, come poi mia madre, non aveva capelli bianchi. E anche tu vedo che continui a non averne uno”.

sabato 5 dicembre 2009

Piccole iniezioni di benessere 5. Trame e tramette per grandi e piccini

“Ma tu che libro stai leggendo?” Incontro Donatella all’uscita dall’ufficio. Saranno le otto di sera, piove e diciamo che non è stata proprio una giornata entusiasmante. Insomma, sono arrabbiata nera. Lei sta meglio, ma si capisce che è sotto tono. Un pezzo di strada insieme e poi prendiamo la metro. “Sto leggendo questo, guarda, Don De Lillo, 'L’uomo che cade'. Ma diciamo che un po’ ti butta giù”. La guardo perplessa: “Io penso che si debbano leggere cose che diano una mano, soprattutto se si è in un momento in cui se ne ha bisogno. Ora leggo trame e tramette per grandi e piccini. Beh, cose così, senza una linea unica che non sia quella di staccare e divertirsi”. Donatella mi guarda: “Ma quando arrivi a casa devi cucinare? Io ho una fame, ma questa sera mi toccano tre etti di fegato”. La fisso: "E oltre tutto ti subisci pure Don De Lillo, secondo me ti devi dare una mano. Solo tu puoi farlo per te stessa".

Mi vengono in mente tre libri molto diversi in cui mi sono imbattuta da poco. Comincio da “Prohibita Imago” di Valentina Olivastri. C’è il giallo, la trama tramosa, un po’ di storia rinascimentale e i “Modi” di Giulio Romano. Divertente e semplice (http://www.mauxa.com/libri-menuartecultura-69/527-un-noir-toscano-tra-arte-e-passione-prohibita-imago.html http://www.qlibri.it/narrativa-italiana/gialli,-thriller,-horror/prohibita-imago/). L’autrice vive e lavora a Londra, che sempre di più è un luogo dove andare per ritornare. Anche solo per scrivere di cose italiane.

Niente di speciale, invece, “La strana coppia” di Jessica L. Nelson. In un’afosa Parigi d’agosto si trovano a convivere, a combattersi e anche a trovare una ragione di esistere due donne terribili, divise solo dal fattore età. La vecchia strega e la giovane figliola sono entrambe insopportabili. E poi lo spunto, che pure è buono, non regge un libro (http://libreriarizzoli.corriere.it/libro/nelson_jessica_l-la_strana_coppia_.aspx?ean=9788882371838). Davvero piacevole e speciale “Volare basso” di Gaetano Cappelli. Personaggi grandiosi in una magnifica storia semplice semplice ed avvincente (http://www.deastore.com/libro/volare-basso-gaetano-cappelli-marsilio/9788831797498.html http://www.paginatre.it/online/?p=1105).



Leggo poi parecchi dei libri della piccola. Mi piacciono le storie della magica casa sull’albero. Leggiamo insieme “Il mago dei ghiacci” di Mary P. Osborne (http://www.battelloavapore.it/bav_catalogo/pm_book_bav_fascia_da_6_anni/il-mago-dei-ghiacci-883845230X.view). C’è un patto tacito per cui nessuna delle due può finirlo senza l’altra. E facciamo in modo che il libro duri senza finirlo mai. I protagonisti sono due fratelli, Jack e Annie, che vengono chiamati da Merlino a risolvere misteri ed a vivere avventure nel passato. È un libro perfetto per l’educazione all’avventura delle bambine. Annie è un po’ più leader di Jack. La piccola da sola legge invece Geronimo Stilton. Ha trovato bellissimi i 5 viaggi nel regno della fantasia (http://it.wikipedia.org/wiki/Geronimo_Stilton). E la storia dei profumi, che puoi sentire strofinando alcune pagine, le ha fatto trangugiare 5 volumi davvero grandi. Un posto a sé conservano le storie di principesse. Le piacciono molto le nuove storie delle principesse del regno della fantasia di Tea Stilton (http://www.principesseregnofantasia.it/).


Due giorni dopo incontro di nuovo Donatella. Non è ancora sera, io sono meno stanca e anche lei mi sembra più serena. Stiamo per prendere la metro insieme, ma si ferma e mi dice che deve fare una telefonata. Mentre la saluto mi sorride. Mi sbaglierò, ma secondo me ha mollato Don De Lillo.

martedì 1 dicembre 2009

Piccole iniezioni di benessere 4. Libere terme all’aperto d’autunno


“Ti insegno a leggere le tracce”. Sera, siamo a casa la piccola ed io. Mi guarda concentrata come un giovane sioux e manca poco mi dica Augh! Entriamo in bagno. “Ecco vedi, quello è il costume bagnato. Lì ci sono le infradito e quello è il suo telo da hammam preferito. Da questi segni si capisce chiaramente che papà è riuscito a ritagliarsi un paio di ore per andare alle terme”. “Ma mi ha detto che aveva tanto da fare…” “Aveva un sacco di scocciature, è vero, ma a Barbarano. La giornata è stata bellissima e lui deve essere riuscito a mettere insieme due ore di pace”. Libere terme all’aperto di autunno. Niente di meglio.


Le nostre preferenze in questo periodo vanno a Masse San Sisto (http://www.lepozzedisansisto.org/index.php?i1=6) Ruderi romani in un posto abbastanza selvaggio e tre vasche di acqua calda, fredda e tiepida. La piccola adora immergersi nell’acqua gelata dopo un breve bagno caldo. È adatta a nuotare con i pinguini e gli orsi polari. Anche il Bullicame (http://images.google.it/imgres?imgurl=http://www.termelibere.it/BULLICAME%2520E%2520FONTE%2520CARLETTI_file/image003.jpg&imgrefurl=http://www.termelibere.it/BULLICAME%2520E%2520FONTE%2520CARLETTI.htm&usg=__g6v44va5iNvlJHbyV421bWDZxAM=&h=342&w=560&sz=20&hl=it&start=5&um=1&tbnid=hOsZRCipLv2a-M:&tbnh=81&tbnw=133&prev=/images%3Fq%3Dbullicame%26hl%3Dit%26sa%3DX%26um%3D1) ci entusiasma. Forse è ancora più bello, ma con i bambini un minimo di servizi – che vuol dire una panca di legno - è meglio. Però la polla tonda del Bullicame è commovente. Pulsa come se ci fosse vita. E per chi da ragazzino ha letto con passione “Viaggio al centro della terra” del prode Jules Verne c’è qualcosa dei sogni d’avventura di allora.

Il Bullicame

Ogni tanto facciamo un salto a Stigliano (http://www.benessere.com/terme/arg00/terme_stigliano.htm http://www.termedistigliano.it/). Altra faccenda. Una villa – borgo del ‘700, dove nulla è affidato al caso. Ottima la cucina dell’hotel e bella la vasca grande con il percorso di idromassaggio.

Restano per completare il quadro Bagno Vignoni, Bagni San Filippo e Rapolano Terme. Sia Gianfranco che io siamo particolarmente legati a Bagno Vignoni. In autunno, la sera, con l’arrivo del freddo della notte la grande vasca termale dove andava Santa Caterina libera una nebbiolina magica. E la vasca è la piazza. Si resta colpiti al cuore. E ci sarà un motivo se anche Andrej Tarkovskij non ha resistito e ha girato qui un pezzo di Nostalghia.


Bagno Vignoni

La caratteristica di Bagni San Filippo (http://www.bagnisanfilippo.it/) è di avere le acque più calde della zona. Sotto la grande cascata naturale non si può quasi resistere. E il martedì, quando riempiono la grande piscina, è veramente difficile restare a lungo a bagno. Resta Rapolano Terme (http://www.termesangiovanni.it/piscine_it.php), dove mettiamo piede raramente, giusto per non perdere il gusto di cambiare acqua.

venerdì 23 ottobre 2009

Piccole iniezioni di benessere 3. Una flute di prosecco millesimato.

“Io mi siedo qui. Secondo me da lei abbiamo solo da imparare. E forse da provare”. La tipa vende vini. Si capisce che è in grado di piazzare frigoriferi al polo nord. E poi un bicchiere ora ci sta proprio bene. Giovanni il mio collega ed io siamo all’aeroporto di Verona. Tra quaranta minuti parte il volo e noi ammazziamo l’attesa tra i piccoli stand. Mi ero fermata prima da una ragazza che vendeva prodotti di bellezza israeliani fatti con i sali del Mar morto. Ma Giovanni non era proprio entusiasta e si era smaterializzato all’istante. Invece dalla tipa del vino si è piazzato subito comodo in poltrona, guardando la fascinosa donna non più giovanissima, che riesce a vendere casse da 12 bottiglie in un batter d’occhio.

Lei ha un vestito nero attillato, decolté alte aperte in punta, capelli neri con qualche linea già bianca. Ed è molto fascinosa, ma di un fascino simpatico e alla mano. Giovanni è abbastanza irretito. Lei ci guarda e sorride. Ha appena liquidato due maturi signori che si sono fatti mollare senza battere ciglio 2 casse di prosecco da 12 bottiglie l’una. Pagamento anticipato, le casse saranno recapitate a casa. “Lei è davvero una grande venditrice – le dico – che cosa ci fa provare? Non mi dispiacerebbe quel prosecco millesimato che ha dato ai signori”. Ci versa due flute. È un prosecco splendido. Io poi provo un cartizze, che mi piace di meno, mentre Giovanni si butta sui rossi.

Al quarto bicchiere sono quasi pronta a comprare. “Potrei riprovare il prosecco millesimato? Ne prenderei qualche bottiglia. È un po’ caro, ma 6 le compro subito”. Giovanni si fa dare un altro rosso. “Mi dispiace, le casse sono solo da 12. Ma ora viene Natale, 12 bottiglie finiscono subito”. Faccio due conti. Penso all’ennesima cassa che arriva a casa e alla faccia di Gianfranco, secondo cui già compro troppe cose su Internet che arrivano per corrispondenza. Chiamano per l’imbarco del nostro volo. Insomma un mix diabolico congiura contro la cassa di prosecco millesimato. Salutiamo la tipa, portandoci via solo la brochure di presentazione, e andiamo via.

Arrivo a casa, apro la porta, saluto la piccola. Mi fermo davanti a Gianfranco, che sta lavorando al computer. “Sai, oggi a Verona ho bevuto un prosecco millesimato splendido”. Gianfranco alza gli occhi dallo schermo: “Lo hai comprato vero? Tra poco è Natale e ci servirebbero proprio un po’ di buone bottiglie”.

sabato 10 ottobre 2009

Piccole iniezioni di benessere 2. Andare in palestra perché c’è la vasca per l’idromassaggio

“Devi provare. Io faccio i salti mortali, ma sai che tento di andare in palestra la sera tutte le volte che posso”. Gianfranco mi guarda perplesso. La sua massima aspirazione non è certo quella di andare a sudare. “E poi c’è il bagno turco e la vasca per l’idromassaggio. L’ho consigliato anche a tua madre, ora che ha smesso di lavorare. Deve trovare una buona palestra e la scelta va fatta sugli optional non sul necessario”.

Io, se posso e quando posso, mi sparo un paio di ore di acquagym. Leggo che si ispira al training autogeno, jogging, judo, pugilato, danza, nuoto, streching, yoga e aerobica. Io lo faccio perché poi mi piazzo nella vasta per l’idromassaggio. E poi perché è in acqua. Nelle lettere alla rubrica dello psichiatra di una rivista femminile ho trovato il messaggio di un tipo che dopo 15 anni di analisi ha cominciato ad andare in piscina. E ha lasciato l’analista. Il bello era la risposta del serio professionista, che argomentava dottamente quanto fosse giusta la scelta di abbandonare l’analisi per l’acqua fresca.

Sono riuscita a convincere Gianfranco a mettere piede in piscina almeno una volta. È andato via dolorante. E poi dice che il suo accappatoio è vecchio e che figura ci fa. Ieri ho comprato in una vendita in rete un accappatoio da urlo. E quando arriva voglio proprio vedere come fa a non venire con me.

Piccole iniezioni di benessere 1. Gente allegra Dio l’aiuta. Adriana

“Ah, sei tu. Già tornata? Ma stai benissimo. Bello questo vestito. Da dove vieni? La piccola è davvero brava”. Ho solo aperto la porta di casa, la chiave è ancora nella toppa e sto entrando. È tardi. Il volo era uno strazio e in ritardo. Sono abbastanza sfatta e parecchio arrabbiata, il vestito è molto sgualcito e un po’ sporco, oltre a non essere bellissimo, e ho tutti i sensi di colpa di una madre. Ma a casa c’è Adriana e riesce a passarti il messaggio che è abbastanza presto, che in fondo stai molto bene e che sei pure un’ottima madre. La guardo allibita e non reagisco. Saluto la piccola, lascio la valigia nell’ingresso e vado in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Lei mi segue. Cammina sui suoi tacchi di dieci centimetri e parla tranquilla: “Hai visto che bel tempo? Mia nipote ha passato benissimo i test per l’ammissione a medicina, ma dimmi dove sei stata?” Ovviamente nella realtà dei fatti fa un caldo umido, appiccicoso e pesante, che fa felici solo quelle bestiacce immonde delle zanzare. Ma Adriana è fatta così e certe sere, se superi il primo impatto, pensi che sia un regalo trovartela davanti.

Adriana ha tre figli ormai grandi, una casa, un marito e la di lui madre che preferisce stare sempre da lei. Soprattutto, è fatta a modo suo. Prima regola: è nata libera, cioè si rifiuta gi girare con un cellulare o con altri mezzi che la connettano al mondo. Nulla da dire. Il problema è quando non riesci a trovarla, non sai che fine abbia fatto, magari sono passate le nove di sera e la piccola è con lei. Seconda regola: legge sempre il lato positivo della vita e trova sempre una soluzione, ma in genere non è quella degli altri. E soprattutto quasi mai la tua. Terza regola: devi prenderla così com’è, pacchetto completo. Se riesci a sopravvivere, in cambio puoi contare su una costante iniezione di benessere.

Poso il bicchiere sulla tavola. “Sono stata a Bari. Pesante, ma la giornata era bellissima. Ero al Castello svevo. Ha qualcosa di magico: il portale, la corte interna con le 4 grandi palme, quel mix fantastico di arabo e del nord” (http://www.stupormundi.it/Castello_Bari.htm). L’influenza di Adriana comincia a farsi sentire. “Ho lavorato tanto, ma ho mangiato pesce ottimo e bevuto buon vino. Ah, ho anche provato ‘favette e cicoria’, in una grande forma di pane era servita una purea di fave con cicoria ripassata. Una squisitezza”.

“È bello andare in giro”. “Ma Adriana, non vedo niente. A volte non ho nemmeno la sensazione di essere da un’altra parte. Adesso sai cosa mi piacerebbe? Fare un giro di una settimana per i castelli di Puglia (http://www.icastelli.it/regioni/puglia.htm , http://www.italyis.com/puglia/ars_hist/castelli/cast_i.html)”. “È vero sarebbe bello. Ora vado, che sono le nove e mezza e a casa non sanno che fine ho fatto da ora di pranzo”.

domenica 20 settembre 2009

Le città perfette. E quelle di cui non potrei fare a meno.

“Scusa, ti ricordi che quest’estate abbiamo parlato delle città che preferivamo? Qual’era la tua?” “Praga, Praga”, scandisce mio padre. Dal telefono la sua voce arriva chiara e forte, con quella erre arrotata che aiuta a trasformare due parole in una dichiarazione di principio. “Ma ti riferisci solo all’Europa,vero?” “Sì, più o meno, un po’ più di Italia e un po’ meno di mondo. Io continuo a pensare che al primo posto ci siano pari merito Venezia e Istanbul. Subito dopo San Pietroburgo”.

Venezia. Prendere il sole alle Zattere in autunno inoltrato o all’inizio della primavera, andare a bacaro in una sera fredda di gennaio, fare il bagno davanti al Des Bains a settembre il giorno prima che apra la Mostra del cinema. Ed anche mettersi gli stivali di gomma per girare con la prima acqua alta oppure mangiare un piateo di sarde in saor.

Istanbul. Fare la spesa al bazar egiziano, prendere un battello la domenica e andare a pranzo in Asia, attraversare il ponte di Galata e guardare il Bosforo, fare un giro dentro Hagia Sophia e stare seduti sui tappeti della Moschea blu. Ancora, riuscire a farla franca con i cani veri signori e padroni della città e mangiare baklava senza pentimenti.

C’è una linea comune di perfezione che lega Venezia e Istanbul. È un po’ come se l’una rimandasse all’altra e si rafforzasse, richiamando le emozioni di quello che viene solo immaginato perché è proprio dell’altra. Forse è sempre stato così. Tra Istanbul e Venezia si srotola la storia raccontata da Jason Goodwin ne “Il ritratto Bellini”. Un bel giallo, misterioso e avvincente. E Costantinopoli è un po’ più Costantinopoli perché c’è Venezia ed è vero anche il contrario. E mi è venuto un bisogno di Venezia… Ho risolto comprando “Corto Sconto. La guida di Corto Maltese alla Venezia nascosta” di Guido Fuga e Lele Vianello, ma in fondo soprattutto di Hugo Pratt, visto che si tratta di sette itinerari che i tre amici facevano insieme. Ogni tanto finivano in una corte sconta, ossia nascosta, e sempre ma proprio sempre in un’osteria.

Accanto alle città perfette ci sono le altre. Soprattutto quelle di cui non potrei fare a meno. In questa categoria metterei Roma, Napoli e New York. La prima perché è ormai la mia città, la seconda perché sarà per sempre il posto da dove vengo. E New York che è il posto dove vorrei andare a stare per un po’. Non è Europa? Beh ma non ci si può fermare…un po’ di progetti li si deve pur fare.

sabato 19 settembre 2009

Elisabetta è bisnonna. Di nuovo.

“Ma con te è scoppiata a piangere?” Guardo Gianfranco dubbiosa: “Scusa ma chi?” “Beh allora non hai incontrato Elisabetta”. “Ma sì, l’ho vista sotto casa. Le ho anche dato un regalino per il suo compleanno”. “E non ti ha detto niente?” Penso e ripenso ed effettivamente ad un certo punto ha cominciato a parlare molto più piano, due toni sotto, e mi ha detto che sua nipote aspetta un bambino. Ora, visto che lo scorso anno la figlia di sua figlia a diciassette anni le ha dato un nipotino capisco che è un po’ provata. Anche io ho cominciato a parlare sotto tono e le ho chiesto: “Ma la stessa dello scorso anno”. “No, la figlia di mio figlio. Non sto a raccontarti la storia”.

Insomma, la storia a grandi linee me l’ha raccontata. Ma eravamo per strada, con altra gente, non poteva lasciarsi andare. Invece con Gianfranco ha dato fondo a tutta la sua angoscia. Con me invece per strada ha tirato fuori le foto del suo bisnipotino, davvero carino. E io le ho detto: “Vedrai che il prossimo anno il momento difficile sarà passato e avrai le foto di tutti e due i piccolini”.

Perché diciamocelo, a me le nipoti di Elisabetta sono davvero simpatiche, con questa cosa del fare figli nel mondo perché è del mondo che sono figli. E questo post è dedicato a loro e soprattutto a chi sta per arrivare.

domenica 6 settembre 2009

Se un’arancia ti cambia la vita

“A casa dei miei nonni si parlava in dialetto, mentre a casa dei miei genitori non era permesso. Mio padre non ha mai voluto”. Siamo a pranzo a Milano ad inizio agosto. La tensione degli ultimi impegni si stempera con piccole storie. Sono a una colazione di lavoro, l’ultima prima della pausa estiva. Chi racconta è il sostanziale padrone di casa. Facendosi due conti suo padre dovrebbe essere nato tra fine ‘800 e l’inizio del 1900. “La storia è semplice – ci dice - la mia era una famiglia di media borghesia. A casa si parlava in dialetto. All’esame di quinta elementare di mio padre una delle domande prevedeva che si scrivesse il nome di un frutto invernale, rotondo, con la buccia ed all’interno spicchi. Mio padre non riuscì a trovare un altro termine se non portogallo. Non riuscì proprio a scovare un altro modo per definirlo. Fu bocciato all’esame di quinta elementare e non ha mai consentito che noi, suoi figli, parlassimo in dialetto”.

Il modo di dire mi è familiare. Anche in napoletano, il mio dialetto-padre, si dice purtuallo. A una lingua-madre spesso si accompagna un dialetto-padre. Faccio una ricerca in rete e scopro sul sito della Treccani che: “portogallo nel senso di ‘arancia’ è disusato in italiano (anche se resiste in alcuni dialetti), ma si conserva in greco moderno portokáli e in turco portakál” (http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/speciali/mondo/rossi.html). Quasi ovunque in Italia la parola è d’uso comune nei dialetti (http://www.alimentipedia.it/Frutta/Frutta_arancia.html).

Poi su wikipedia leggo che “Nella letteratura del secolo XIX a volte l'arancia viene chiamata portogallo”. E su altri siti che “in italiano, portogallo è un altro modo per dire arancia” (http://www.nomix.it/rubrica_toponomastica.php?puntata=8). Insomma,metti che un’arancia ti cambi la vita. Che abbia effetto anche sui tuoi figli. E che magari avevi ragione.

sabato 1 agosto 2009

Io sto con Google

“Devo dirti che mi sono un po’ emozionata. Ti faccio vedere la cartolina con il timbro US, speditami da Google per darmi il codice segreto". Antonio mi guarda interrogativo: "Il codice segreto di che?" "Beh, se hai un blog può essere che ti offrano di mettere delle inserzioni pubblicitarie calibrate su quello che scrivi. Che so, parli di Mosca e nello spazio dedicato alla pubblicità ci sono offerte per voli o per alberghi in Russia. Può essere che chi legge poi vada sulle offerte pubblicitarie. E il titolare del blog viene ricompensato sulla base dei click sulle inserzioni. Per ricevere i pagamenti per la pubblicità che ho messo sul blog mi hanno quindi mandato dagli Stati Uniti un codice segreto per attivare la procedura. Non pensare che abbia guadagnato chissà che. Sino ad ora ho potenziali entrate per ben 8 euro. E poi mi hanno scritto per propormi anche di fare io stessa pubblicità al mio blog su altri siti, offrendomi prima 100 e poi 50 euro. Ora non ho il tempo per seguire tutto questo, ma la cosa mi è piaciuta. Insomma Google mi fa sentire giovane, parte di un circuito e soprattutto una persona su cui investire. E non mi danno l’idea di essere proprio malvagi. Insomma, io sto con Google”. Antonio mi guarda meravigliato: “Ma scusa quanti contatti hai sul blog?” “Non una cifra stratosferica, ma evidentemente per loro sono interessante. In realtà, penso dipenda dal fatto che poi in rete sono davvero pochi quelli che si mettono a ‘produrre contenuti’, ossia a scrivere due parole intellegibili. In più sono vitale. Magari a volte passa un po’ di tempo prima che scriva qualche altra cosa, ma non abbandono mai del tutto il campo. E loro lo sanno”.

Antonio è a cena da noi. È tanto che non ci vediamo. Ha sempre stani mali e si cura da medici ancora più strani. Ha un po’ di mal di stomaco. “Mi hanno dato il nome di un nuovo dottore cinese da cui devo andare. Non digerisco più, non so cosa fare”. Gianfranco è lapidario: “Elisabetta ci ha rifornito non solo di parmigiana, che eviterei di mangiare nelle tue condizioni se vuoi sopravvivere, ma anche di riso al forno con patate, che invece penso sia l’ideale per te”. Mangiamo in cucina e in un paio d’ore voliamo rapidi su sciagure e fortune dell’ultimo periodo. Vita quotidiana, lavoro, amici, case, paesi. Nelle varie e eventuali è entrato il blog. “Ogni tanto vedo che quelli di Google vengono a dare uno sguardo ad alcune cose specifiche. I misuratori che ho caricato mi dicono che lo fanno da Mountain View, California. Mi diverte vedere le loro tracce, il loro passaggio”. Antonio è pronto a cogliere il lato avventuroso della cosa, ma non si ferma qui: “Insomma nella prossima grande battaglia Microsoft – Google tu sai già per chi stai”. “Beh, sì. E l’accordo tra Microsoft e Yahoo! lo leggo come un segno di debolezza per far fronte comune contro il più nuovo che avanza”.

Ho deciso di andare a fondo in questa scelta di campo, pronta a cambiare idea se qualcosa non dovesse convincermi del tutto. Faccio fatica costituzionalmente a essere di parte. In più devo dire che non mi è del tutto chiara questa storia di Google in Cina, secondo cui sarebbe modellato per rispettare la censura vigente. E un altro paio di dubbi mi ronzano comunque in testa. In ogni caso, sul sito www.misurarelacomunicazione.it sono stata catturata dalla recensione del libro di Randall Stross “Planet Google” (Randall Stross, Planet Google. How One Company is Transforming Our Lives, Simon&Schuster, New York 2008). Alla seconda libreria sono riuscita a trovarlo e mi appresto a metterci dentro il naso. E poiché so che i miei amici di Google dalla California prima o poi arriveranno su queste righe, li saluto molto caramente, pregandoli di fare i bravi.

lunedì 20 luglio 2009

Un treno carico di passato

“Sbaglio o fino ad una certa età per tutti eri Kekè?” Silenzio e meraviglia dall’altra parte del telefono. Anche un po’ di sconcerto. Niente nomi da adulta che proteggono, ma la certezza che il passato può venire scoperto da un momento all’altro. “Ma tu come lo sai?” Ho conosciuto Alina per lavoro e, per quanto le incursioni nelle reciproche vite private siano state parecchie e divertenti, resto un’amica di lavoro. “Mio padre ancora mi chiama Kekè. Ma chi te lo ha detto?”. Ovviamente mi guardo bene dallo svelare l’arcano. E invece infierisco. “Penso che ti stia bene. Ovviamente Kekè con la k. Un nometto da piccolina, ma la K non te la toglie nessuno. O almeno certamente non io”.

Kekè è seriamente provata: “Dai non ti ci mettere anche tu. Sono già abbastanza sfinita dal ‘treno dei ricordi’ che ho preso l’altro giorno”. “Racconta un po’, che mi serve proprio una storia”. “Ma, guarda, prendo il treno l’altra mattina e tutto sembrava regolare. Il primo incontro mi è sembrato normale. Restiamo a parlare per un po’. È una persona che rappresenta benissimo l’esperienza di lavoro di una decina di anni fa. Un tuffo in quel pezzo di passato”. Mi sento abbastanza pestifera: “Insomma hai incontrato un vecchio collega”. “Sì, ma non faccio in tempo a riprendermi che vedo qualcuno che mi guarda. Mi si avvicina e sento una mano sulla spalla. Sto per mollare un cazzottone per proteggere la borsa, ma riconosco nell’uomo che ho davanti un vecchio amico calabrese che non vedevo da vent’anni. Era per caso alla stazione per cambiare treno. Tre minuti per raccontarsi la vita. Andava da Torino a Mantova e sta per avere due gemelli. Un’altra doccia di passato”.

“E poi?” “È andata avanti così. Al ritorno proprio nella mia carrozza è entrato un altro pezzo di vita lavorativa, mentre appena sono arrivata ho incontrato un altro amico di adolescenza. Sono ancora distrutta. Ho messo a fuoco tanti pezzetti di vita”. “Oh, direi che ci si può far poco. Sono solo gli anni che passano, Kekè”.

martedì 23 giugno 2009

Pantaleone, Peter e mio padre

Se mio padre ha passato l’ultimo anno con Pantaleone, Peter è stato con lui per almeno vent’anni. Chi è Peter? La parola a mio padre: “Certo hai conosciuto Peter von Steinitz. Anche la sua storia personale è assai intrigante! E' nato nel 1940 in Perù, dove il padre, ingegnere elettrotecnico, lavorava per la filiale locale della Telefunken. Richiamato alle armi, il tenente di vascello Kurt von Steinitz della Kriegsmarine era cugino di mia madre. L'ho conosciuto da bambino quando, sostando con il suo U-boot nel porto di Napoli, veniva in visita dai miei genitori. Sarebbe poi affondato in combattimento con il suo battello, mentre la giovane vedova e il figlioletto ancora infante riuscivano a rientrare fortunosamente in Europa a bordo di un mercantile neutrale.

Il giovane Peter - bellissimo come il protagonista del suo romanzo - compie studi di architettura a Braunschweig, ma effettua vari stages all'estero, fra l'altro a Napoli, dove nel '62 si mise in contatto con la tua nonna, ancora vivente, e così ci conoscemmo e facemmo amicizia. Poi ci perdemmo un po' di vista.

Nel 1980 - a quarant'anni d'età, dunque - intraprende gli studi di teologia a Roma, e il 31 maggio del 1984 viene ordinato sacerdote da Giovanni Paolo II in San Pietro. Dal 1987 al 2008 è parroco della Basilica di St. Pantaleon, una delle più belle e antiche chiese romaniche della Germania. Attualmente assolve una missione pastorale a Muenster”.

Anche Gianfranco ha qualcosa da dire. “Peter von Steinitz? Mi ricordo benissimo quando ci siamo conosciuti a casa dei tuoi genitori. C’era anche la piccola. Dopo un lauto pranzo, non ricordo più come andarono le cose ma si decise che lo avremmo riportato alla sua residenza romana la piccola ed io. Ero un po’ ingessato in macchina mentre guidavo e mi sembrò appropriato mettere una musica di un certo tono. Non avevo fatto i conti con la piccola, che cominciò a lamentarsi e a chiedere un altro ritmo. Come fu, come non fu, finimmo tutti e tre a cantare a squarciagola con i finestrini aperti ‘yellow submarine’”.

Un’ultima mail di mio padre torna a parlare di Pantaleone. “Interessandomi del personaggio di San Pantaleone (o Pantaleo, o - a Venezia - San Pantalon), ho scoperto che è molto venerato in varie zone d'Italia, specie meridionale (è patrono di Ravello, Vallo della Lucania, Limbadi e molte altre città e parrocchie), dove il suo culto fu portato dai Crociati, di ritono dal Medio Oriente. Era quindi proprio opportuna una traduzione in italiano, dopo quella in russo, mentre ora sono in corso quella in inglese, bulgaro e swahili (il santo è venerato anche in Tanzania!). Il libro ‘Pantaleone, il Medico’ è stato testé pubblicato nella prestigiosissima collana "La Memoria Storica" diretta da Fulvio Tessitore per l'Editoriale Scientifica, Via San Biagio dei Librai, 39 - 80138 Napoli, e-mail
es@editorialescientificasrl.it” .

lunedì 22 giugno 2009

Pantaleone e mio padre

“Ti ricordi per caso come si chiama il santo di mio padre?” “Renato?” Gianfranco mi risponde interrogativo. In fondo pensa che la mia famiglia ed io siamo degli originali. “Ma no, non il santo del suo nome, il santo del libro che ha tradotto”. “Allora è Pantaleone. Il titolo del libro è ‘Pantaleone, il medico’”. Ora è bene chiarire che mio padre non è un mistico, non sta rileggendo la sua vita con la lente della fede, ma ha passato l’ultimo periodo soprattutto in compagnia di Pantaleone.

E così, per esempio, quando lo scorso anno chiesi a lui e a mia madre di venire a darmi una mano a Bruxelles, la risposta fu: “Si può fare, ma non posso lasciare Pantaleone, devo andare avanti nella traduzione”. E arrivarono armi, bagagli e traduzione in corso. È dell’inizio di giugno una mail stringata, che dà il peso della cosa: “Ricevo in questo momento, con enorme emozione, ‘Pantaleone, il Medico’. E' bellissimo!” il giorno dopo, visto che evidentemente non avevo reagito, a margine di un messaggio trovo il post scriptum: “Non mi hai espresso giubilo per l'uscita del libro su San Pantaleone: forse vuoi prima vederlo?” A questo punto, dopo averlo visto, non posso non mettere a disposizione di Pantaleone questo spazio.

Lascio la parola a mio padre Renato Ferraro di Silvi e Castiglione. “E' apparsa, dopo oltre un anno di lavoro intensissimo, la mia traduzione dal tedesco del libro di nostro cugino Peter von Steinitz su San Pantaleone, l'eponimo della basilica dov'egli è stato parroco per oltre vent'anni. Devo dire che il volume è bellissimo, mi sembra che l'editore ne abbia curato con vero amore la veste tipografica, il testo è intrigante e scorrevolissimo. Si tratta della storia romanzata di un giovane e bellissimo medico cristiano martirizzato sotto Galerio nel 305 a Nicomedia, allora capitale dell'Impero Romano d'Oriente. Partendo da consolidate narrazioni tralaticie presenti sia nella Chiesa Romana sia in quelle orientali (sia cattoliche sia ortodosse), intessute con vicende dichiaratamente di fantasia il libro - che certamente si ascrive nella categoria dei romanzi storici, ma che è insieme un romanzo di formazione e un percorso filosofico-teologico - ricostruisce la vita e la morte del giovane Martire, la sua formazione scientifica, la sua pratica professionale sanitaria sulle orme del padre, le tenerezze e le sfide dell'adolescenza e di una giovinezza che sente fortemente l'amicizia, pratica intensamente lo sport e non disdegna affatto l'amore (la vicenda è anzi soffusa da un delicatissimo erotismo), il cammino non facile e spesso frenato da perplessità ed esitazioni verso la conversione al cristianesimo. A volte incisivamente realistica, a volte caratterizzata di una coloritura che ricorda certo ‘realismo magico’ tipico della letteratura latino-americana, la narrazione non scivola mai nell'edificante stucchevole o nel teoretico astruso”.

Aver passato più di un anno insieme ha lasciato un segno. E mio padre continua: “Particolarmente suggestivo è l'affresco vivace dell'epoca in cui la vicenda è collocata: Nicomedia - l'odierna Izmit in Turchia - è stata da poco prescelta a sua capitale da Diocleziano, ed egli vuol renderla degna di tale qualifica: il tumultuoso sviluppo urbanistico si accompagna alla creazione di un'aristocrazia imperiale in cui confluiscono notabili locali e militari e funzionari, con consorti e famiglie, "immigrati" al seguito o richiamati dall'augusto da varie parti dell'Impero: molti sono i personaggi scolpiti a tutto tondo e le scene a colori vivacissimi.

La vita e la morte del Martire hanno commosso e commuovono uomini e donne di tutte le epoche e suggerito notevoli interpretazioni artistiche: si rammentino, soprattutto, le icone delle Chiese orientali: penso, in particolare, alla stupenda collezione della cattedrale di Aleksandr Nevskij di Sofia, che come sai ho avuto occasione di visitare proprio da poco”. Per chi cercasse il libro: Peter von Steinitz, ‘Pantaleone, il Medico’ – collana La Memoria Storica – Editoriale Scientifica, Via San Biagio dei Librai, 39 – 80138 Napoli, e-mail
es@editorialescientificasrl.it .

venerdì 5 giugno 2009

Olivia, ovvero dell’imperscrutabilità dell’amore.

“Dai, regalami una storia. Se tu dovessi raccontarmi qualcosa, di che parleresti?” Sera, guardo Olivia che è seduta di fronte a me. "Penso ti direi di mia madre, perché in fondo la sento anche un po' mia figlia". Si ferma. Io dico qualche scemenza per darle il tempo di fare il punto con se stessa. Ci ripensa: "No, guarda ti racconterei dei miei nonni. Ho pensato per tanto tempo che non si amassero, che stessero insieme perché così doveva essere. Erano gente molto semplice. Un matrimonio combinato. Credo ci fosse di mezzo una storia di terra. In fondo erano contadini. Poi mi sono capitati per le mani i diari di mia nonna. Per anni ha raccontato pezzi delle sue giornate e soprattutto ha parlato di mio nonno. Scriveva soprattutto di lui, che non voleva smettere di fumare, che la lasciava troppo spesso sola. Ora io dico: 'se tu questo lo hai sposato perché ti è toccato non è che poi scrivi sempre di lui, oppure non è che ti lamenti se non c'è'. Ti pare?"

Non posso che essere d'accordo. "Hai ragione. E invece tuo nonno?" Olivia ha gli occhi brillanti. "Beh, la prova del nove da parte sua non c'è, però ci sono fatti che mi permettono letture complesse. Per esempio quando i miei genitori si sono lasciati - e ti assicuro che non è stato facile per nessuno - mio nonno ha scritto bellissime lettere a mia madre. Stiamo parlando della moglie di suo figlio. Sarebbe stato molto più facile e scontato che lui rompesse con lei. Più ovvio che magari non volesse nemmeno vederla e non le rivolgesse la parola. E invece mio nonno le scriveva". Guardo Olivia, che ha gli occhi sempre più liquidi. "Bella storia. Un grande amore camuffato da matrimonio combinato e un uomo pronto a confortare invece di combattere. Come dire l'imperscrutabilità dell'amore. Gianfranco dice che le storie della propria famiglia contano nel definire il proprio destino. Se è così la storia dei tuoi nonni non può che influire positivamente sulla tua strada".

Ho finito ora di leggere "Le ragazze di Riad" di Alsanea Rajaa, che poi diciamocelo è un piccolo manuale sull'imperscrutabilità dell'amore. A un'altra latitudine, ritmi, consuetudini. Ma non è altro che questo.

domenica 31 maggio 2009

Luce e luci

Luce atlantica
“La vede questa luce? È atlantica. La trova al nord, a New York oppure qui a Bruxelles”. Siamo fuori, all’entrata di un palazzo di uffici a Square de Meeus a Bruxelles. Il proibizionismo regna sovrano e il mio interlocutore è qui fuori per fumare. Io, intanto, aspetto un taxi per andar via. Parliamo con grande partecipazione di questa luce bianca, algida e fascinosa che ci sta a guardare. Mentre a Roma questo maggio ci ha già fatto assaggiare i 30 gradi, qui l’atmosfera è di una fresca primavera. “È davvero diversa da quella per noi familiare” gli dico, mentre tento di capire se la macchina che sia sta avvicinando è per me. “Sono rimasta meravigliata quando ho capito che la gente di Bruxelles considera anche Parigi già sud. Sarà quel colore giallo, che la luce accende. Qui la dominate invece tende al bianco”. Lui aspira una profonda boccata di fumo. Pensa in silenzio. Poi mi dice: “Un collega olandese, non più giovanissimo, mi ha raccontato una volta di una gita organizzata dal padre per spiegargli il senso profondo delle cose. Il padre era un pastore. Non riesco a ricordare il posto preciso dove andarono, ma da lì lo sguardo si spingeva sulla piatta distesa molto profondamente a sud. E lì il padre parlò a lungo, mettendo in guardia i suoi due figli su ciò che vedevano in lontananza: il sud ed il peccato”. Sorrido mentre apro la portiera del taxi e con un breve cenno di saluto vado via. Torno a casa, a sud.

Luci. Al tramonto ad Atene.
“Com’è andato questo viaggio?” Mio padre mi chiede sempre due parole di resoconto. “Ma, niente di speciale. È come se non fossi stata ad Atene. Ho lavorato soltanto. Se ti dovessi raccontare qualcosa dovrei cercare nella memoria i ricordi di altre volte ad Atene”. Mio padre non demorde: “Fa comunque sempre bene andare fuori. Ti sei molto stancata? E dov’eri in albergo?” “Sì, un po’ faticoso, ma l’albergo era molto buono. Beh, ora che ci penso la cosa da ricordare è stata una cena al tramonto sul roof garden di un posto molto speciale. Quando abbiamo preso l’aperitivo era ancora molto luminoso. Tutto abbastanza azzurro, sotto di noi la distesa di case bianche. Poi la notte è diventata sempre più blu, le case per un po’ sono diventate quasi più bianche. Sai quel bianco che vira al violetto. E piano piano si sono accese le luci della città. E dominante l’acropoli, di fronte a noi, in una luce calda e un po’ enfatica. La collega scozzese, che cena seduta vicino a me, ha comprato una casa in una piccola isola greca. E avendo l’acropoli davanti capisci che ha fatto la scelta giusta”. “Bello – taglia corto mio padre – penso tu fossi a Syntagma, all’Hotel Grande Bretagne (
http://www.grandebretagne.gr/ )”.

Luci della notte. A Milano.
Non sopporto l’aria condizionata. E nemmeno il caldo. In più devo fare i conti con la mia allergia primaverile. In albergo a Milano ho deciso di lavarmi la stanchezza e di fare un pieno di fresco mettendomi a mollo nella vasca. Esco da questa terapia di benessere, ma ancora non riesco a prendere una decisione. Basta. Spengo l’aria condizionata e vado a letto. L’aria è pesante e non riesco a dormire. Mi alzo e riaccendo. Sento che mi fa male. Giro un po’ per la stanza. Devo trovare una soluzione per dormire. Tiro su la persiana e apro la finestra. Sono all’ottavo piano. I rumori arrivano attutiti e di fronte le luci di un alto palazzo mi garantiscono una presenza molto metropolitana. Lascio la finestra aperta, la serranda a metà e vado a dormire con le luci della notte milanese.

sabato 9 maggio 2009

‘Tutto si può conquistar’ e io sdogano il mondo di Patty. “Porque somos gasolina, gasolina de verdad”.

“Certo che è davvero brutta. Ma poi perché si mette quei cappellini orribili. E quei pantaloni gialli con quella maglietta rossa, tremendi…”. “Ma che dici, mamma, Patty è carinissima”. Insisto e non demordo, da un paio di mesi combatto contro Patty con risultati inesistenti. Anzi, mia figlia è sempre più conquistata da questa ragazza bruttina, sfortunata, lamentosa, pasticciona e canterina. “E poi guarda, secondo me ora si fa un bel pianto, perché certamente ha combinato qualche sciagura senza volere”. “Ma no, mamma che dici, adesso ricorda la prima volta che ha visto Leandro, che è suo padre, ma lei non lo sa”.

Più lotto contro Patty più la piccola è persa dietro di lei. Il mondo di Patty è una telenovela, che rispetta in maniera ineccepibile tutte le regole di lentezza, ripetitività e trionfo del kitsch. Se poi ci si mettono un po’ di canzoni orecchiabili il gioco è fatto. Vado in rete e vedo che crescono i fun club (
http://www.w-mondo-di-patty.fan-club.it/). Patty è una ragazzina argentina abbastanza racchia, che vive con la madre Carmen. Non conosce suo padre, che in realtà è Leandro, ancora innamorato di Carmen, che non gli ha mai raccontato della figlia. Patty ha un’unica qualità: canta con una voce magnifica. Ovviamente secondo il metro di una telenovela argentina. Riesce ad essere ammessa in una scuola artistica, dove incontra la perfida Antonella. Ogni tanto combina qualche pasticcio, tipo far finire sotto una macchina Antonella.

Ero davvero preoccupata quando la piccola mi mise a parte della tragedia: “Sai mamma, secondo me Antonella è morta, non ce la farà”. Invece ovviamente Antonella prima finisce su di una sedia a rotelle, in modo da andar avanti un po’ di puntate con la tragica storia, e poi ritorna in circolazione con tutta la crudeltà di leader di Las Divinas, che cantano come manifesto:
“Nadie pasa de esta esquina
aquí mandan las divinas
porque somos gasolina
gasolina de verdad” (http://www.youtube.com/watch?v=VcwrrgyglPw&hl=it).
Insomma la trama è proprio da telenovela (
http://www.dgmag.it/televisione/il-mondo-di-patty-arriva-l-ugly-betty-adolescente-13991?page=7) e certo la prima reazione è di vietarla.

“E poi diciamocelo ha delle musiche tremende - mi dice Gianfranco, che detesta Patty - sembrano quelle di un porno soft anni ’70. E li hai visti gli ambienti? Orribili. E i tempi? Spaventosi”. Insomma, diciamo che Gianfranco ed io eravamo pronti a far fare una brutta fine alla povera Patty. E invece…e invece lei ha conquistato anche noi. Perché ha in sé una tremenda forza positiva. Patty è brutta e vincente, non ammicca e non ha aspirazioni da velina. Si fidanza con un bel ragazzotto che ama perdutamente. Ci mettono non so quante puntate per darsi il primo bacio. Il mondo di Patty ha tempi completamente diversi dall’accelerazione dominante. Una cosa viene detta dieci volte e l’inquadratura resta la stessa per un secolo. Certo l’ambiente è un po’ pasticciato, ma anche questo ha un suo senso. Insomma Patty piano piano mi ha conquistato. E comincia ad avere dalla sua anche la stampa più seria. (
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/spettacoli/200905articoli/4346). Perché Patty si impegna davvero. Perché è il “Patito Feo”, il brutto anatroccolo. Ma anche perché “todo se puede lograr aunque sea duro el camino” e “todos tenemos la esperanza en el corazon”.

E proprio seguendo questa linea, invece di leggere lo scrittore svedese che va per la maggiore - Stieg Larsson di “Uomini che odiano le donne” - ho finito la saga anche questa svedese del “romanzo delle Crociate” di Jan Guillou. Quattro libri popolari: “Il Templare”, “Il Saladino”, “La Badessa”, “L'erede del Templare”. Perché mi va di non perdere il polso delle cose populares, perché “todos tenemos la esperanza en el corazon”, ma anche perché tutti abbiamo bisogno di riposarci. E di non pensare o farlo in una dimensione diversa.

Lavarsi le mani. All’aeroporto di Dar Es Salaam

“Ti scrivo dall’Africa - Dar Es Salaam - per comunicarti il mio nuovo stato di grazia”. Stavo per cancellare una bella fila di messaggi quando sono stata catturata dall’email di Claudio di qualche mese fa. “Sono in vacanza per 4 settimane, qui a casa di Eraldo. La scommessa è di riuscire a non fare nulla, neanche il turista, pur di fermare la corsa”.

La mia risposta dice: “Spero tutto bene, lì giù a Dar. All'aeroporto mi ricordo andai al bagno. Esco dalla porta e una gentile signora mi chiede se voglio acqua. Sto per dirle sì, quando mi accorgo che è in un fustone coperto, da versare con una specie di pentola. Folgorata dall'assenza di acqua corrente la risposta non poteva che essere ‘no, grazie’. La gentile signora avrà certamente pensato ‘che lerci questi europei’".

Claudio è ineccepibile nella sua laconicità: “Sarà mia cura andare al cesso all’aeroporto di Dar alla prima possibile. Ti faro avere notizie sugli eventuali sviluppi”.

venerdì 24 aprile 2009

Ancora in centro a Milano. Incontro Silvia. Ma vedere i prodromi di un’amicizia ti allunga la vita?

“E noi eravamo lì. Lui ed io per sposarci, i pochi che erano venuti dall’Italia, i pochissimi che lo accompagnavano e questa autorità indiana molto più impegnata a mettere a punto il seggio elettorale che ad occuparsi delle nostre nozze. Immaginati che in India le elezioni sono totalizzanti. E noi lì, in un quasi seggio, a sposarci”. Guardo Silvia e non posso fare a meno di dirle: “Una cosa tipo il mio strano e mitico matrimonio indiano?”. Mi risponde sorridendo: “Sì, tipo. Anche se il bello doveva ancora venire. Lui mi aveva chiesto di fare anche una piccola cerimonia religiosa, ma una cosa piccola piccola. Sai, ha tre fratelli tutti sistemati secondo le regole. Matrimoni combinati, insomma. E poi arrivo io. Più grande, italiana. Beh mi chiede se posso venire incontro ai suoi genitori. Io dico di sì, e qui si aprono i titoli di testa di un film di Bollywood. Non ti descrivo la cerimonia religiosa, ne’ quanto è durata. Lascio tutto alla tua fervida fantasia”.

Di nuovo a Milano, incontro Silvia. Sera di fine aprile, mangiamo fuori e dentro l’Hostaria Borromei (
http://www.hostariaborromei.com/). Bel cortile nella Milano del ‘600. Partiamo con un aperitivo fuori, ma viene a piovere e dobbiamo continuare dentro. Parliamo un po’ di lavoro. Non so come siamo arrivate a parlare di fatti davvero privati. Ma ci siamo e la cosa viene naturale.

“Non pensavo di sposarmi, prima. E invece poi è stato normale. Non è che dici ‘ti andrebbe di venire a convivere a Milano da Bombay?’ e la risposta non può essere ‘ma, forse meglio venga tu qui da Milano’”. “Assolutamente d’accordo – convengo – quelli che si piccano di non sposarsi non hanno sostanziali problemi. Quando Gianfranco è stato davvero male, il fatto che ci sposassimo ha dato una mano effettiva. Ma a tuo marito piace stare in Italia?” Lo dico per fare una domanda facile e stemperare la profondità. “Ma guarda sinceramente non lo so. Ha fatto cose molto diverse dopo essersi laureato. Ora si occupa di import-export di gioielli tra l’India e l’Europa. E comunque ci sono metri di giudizio diversi. Pensa che lui viveva da solo a 13 anni ed era già assolutamente autosufficiente”. “Scusa, come solo? Non mi hai detto che ha una famiglia, che è anche una buona famiglia?” “Sì, certo. Ma per fare le medie non si poteva fare altro che mandarlo in un posto più grande. Così a 13 anni aveva una sua casa, una sua vita, si amministrava. Ha un pacchetto di strumenti per essere in grado di gestire l’eccezione, e come fai a sapere se gli piace stare in Italia o anche questa è un’eccezione?” Ceniamo e parliamo di lavoro, ma anche di aspetti molto privati. E pensare che poi in fondo sono un po’ misantropa e non è che sempre mi venga proprio naturale mettere in piazza i fatti miei. Ma c’è un punte con Silvia. E anche bello solido.

Finiamo e usciamo. “Io ho bisogno di camminare un po’”, le dico. “Ma sì, ti accompagno in albergo e prendo un taxi”. Camminiamo la sera in centro. Piazza Duomo, poi giriamo a destra, sempre parlando. Davanti all’hotel ci abbracciamo per salutarci. “Poi magari compro qualche gioiello da tuo marito”. “Perché no, che cosa ti piace?” “Ma non lo so, ci devo pensare”.

Poi la mattina dopo apro Repubblica e trovo un’intera pagina dedicata all’amicizia, che fa star bene e allunga la vita. “Forti legami sociali possono migliorare le prestazioni cerebrali mano a mano che si invecchia”. E ancora “Chi ha veri amici ha meno probabilità di prendere anche il comune raffreddore, forse perché ha livelli inferiori di stress”. Pupi Avati nell’intervista di spalla è però scettico: “Difficile da adulti trovarne uno”. La sua posizione è che dopo una certa età non ci sarebbero più margini per costruire nuove amicizie. Ma tra gli asparagi all’agro e il baccalà con i ceci io ho letto i prodromi di una nuova amicizia. Ora io non so se mi allungherà la vita, ma certo potrebbe compensare la solida massa di arrabbiature che congiura ad accorciarmela.

venerdì 17 aprile 2009

VIP passage

“Oh buongiorno, lei è già qui?” Sono le 8 e la hall del hotel a Mosca è grande come la piazza di un paese. Quasi nessuno in giro. Un solo uomo armeggia dietro il bancone della reception che in genere ne prevede cinque. “Venga a fare colazione con me, non aspetti qui da sola”. Guardo Svetlana. È seduta in un angolo di uno dei divani. Il cappotto nero abbottonato, i capelli biondi legati a coda, gli occhi chiarissimi leggermente truccati dietro gli occhiali dalla montatura scura. “È arrivata davvero presto, dobbiamo andar via solo alle 8,30”. “È vero sono arrivata un po’ prima – mi risponde sistemandosi meglio ma sempre in uno spazietto davvero piccolo di questo grande divano – ma il traffico a Mosca è tremendo, se non fossi arrivata qui alle 7,30 non avrei avuto la certezza di essere in tempo. Dalle 8 in poi non si possono più fare previsioni. Ci può volere un tempo infinito per qualunque spostamento”. “Venga a prendere almeno un caffè” insisto. “No, grazie, vi aspetto qui”.

Svetlana è la nostra bacchetta magica – del capo e di conseguenza anche mia - per il VIP passage all’aeroporto di Mosca. Dopo aver attivato una complessa procedura devi aver qualcuno che paghi per te cash appena sei partito. Ha due lauree e parla quattro lingue. Lavora da molti anni a Mosca per un’impresa italiana.

Facciamo colazione e partiamo. “Quando sono stato qui a giugno scorso – le dice il capo - fu sempre lei che tanto gentilmente mi accompagnò per evitare le lungaggini all’aeroporto”. Il capo ed io siamo seduti dietro in macchina. Svetlana è davanti, vicina all’autista. Parliamo del più e del meno. “Mosca è molto inquinata. Non avevo mai pensato quanto potesse essere importante avere aria pulita e verdura buona prima di avere una figlia. Ho una bambina di poco più di 6 anni. È molto allergica ed anch’io con il passare del tempo comincio ad avere reazioni pesanti. E lei ha figli?” “Sì – le rispondo – anche io ho una piccolina”. Il capo accenna ai suoi tre nipoti per essere in linea. “Abbiamo comprato una casa in campagna ad un’ora da Mosca. Lì è bellissimo e l’aria è magnifica”. “Ma d’inverno farà un freddo cane – dice il capo – e poi certo non potete andare e venire”. “No certo. L’inverno è bellissimo, tutto bianco. Ma noi siamo qua con il lavoro e poi la bambina il prossimo anno comincia la scuola. Qui si va a sette anni compiuti”.

Fermi nel traffico parliamo tranquilli di pezzi delle nostre vite. Dopo qualche minuto di silenzio Svetlana si volta verso il capo: “Posso chiederle una cosa?” Ci ho fatto l’abitudine. A un certo punto le persone hanno qualcosa da chiedere al capo. Faccio finta di niente, resto lì tranquilla ed è come se mi smaterializzassi. Il capo è inchiodato al sedile della macchina, è chiaro che non potrà non sentire questa accorata richiesta. E poi comunque è un uomo tranquillo, timorato di Dio e fin troppo abituato a gestire il potere. “Ma certo, mi dica”. “È solo un’idea – comincia Svetlana – ma lei pensa che sia difficile trovare lavoro in Italia? Sa, pensavamo che magari per un periodo potrei venire con mia figlia. Lei ha tanto bisogno di sole, di aria pulita e di verdure fresche”. “Per lei non dovrebbero esserci problemi. Ma suo marito che cosa fa?” Il capo è concreto: una cosa è spostare in Italia una persona che già lavora per te a Mosca, ben altra trovare una sistemazione a tutta una famiglia. “Mio marito è commercialista, ma ha una sua attività. Compra macchine incidentate, le mette a posto e le rivende. Ma lui non può lasciare Mosca. È solo un’idea, ma pensavamo che per un periodo potessimo venire in Italia mia figlia ed io”. Il capo è un uomo di una certa età e conosce il mondo: “Ma certo non può pensare di mandare avanti una famiglia e di tenerla unita stando lei in Italia e suo marito a Mosca”.

Arriviamo all’aeroporto di Sheremetyevo. Il VIP passage prevede di poter aspettare in una saletta tutta per noi. Tra una telefonata di lavoro, un caffè e chiacchiere informali, il tempo vola. Ci chiamano. Dobbiamo andare. Svetlana ci accompagna ai controlli. Pensavamo di avere una guida per il VIP passage, senza capire che il VIP passage per lei eravamo noi. Svetlana conta su un passage ben più importante. Arrivati all’ultimo controllo le stringo forte la mano: “Spassiba, dasvidania”. Il capo mi guarda: “Ma che fa parla russo?” “Ma no – lo rassicuro - solo grazie e arrivederci, due parole per essere gentile”.

giovedì 9 aprile 2009

Vodka al Cafe Pushkin e riso pilaf da Barashka. Tutto in centro, ad un passo dalla Piazza Rossa.

“Vodka”. Guardo il fascinoso giovane cameriere e ripeto: “vodka”. È vestito con abiti d’altri tempi e la luce enfatica gli disegna i lineamenti e i piani del viso. Guarda me e i miei sette compagni di tavolo riuniti dal caso e dal lavoro. Prende le ordinazioni e alla parola vodka si ferma per chiedere quanta. “Just one” gli rispondo. Ma non gli basta: “One shot or one liter”. Non mi ero proprio posta il problema e invece pare sia normale. Guardo i colleghi e altri tre decidono di buttarsi sulla vodka. Ci accordiamo per mezzo litro, che ci arriva in una caraffa come fosse acqua. Non avevo mai ordinato vodka e forse non lo farò mai più. In realtà non ne ho nemmeno mai bevuta, ma sono a Mosca, non ho visto niente e le probabilità che riesca a ritagliarmi qualcosa più di un’ora nella Piazza Rossa vanno sfumando con il passare delle ore, sono nel miglior caffè-ristorante, è notte inoltrata e come faccio a non ordinare vodka? Due musiciste del locale suonano in un angolo in abito lungo fuori del tempo. Le pareti sono coperte di vecchi libri e puoi ordinare anche caviale nero.

Il Cafe Pushkin è il miglior ristorante di Mosca e un calcio sostanziale al realismo sovietico. Qui è come se il 1917 non ci fosse mai stato. Anche il sito (
http://www.cafe-pushkin.ru/) disegna una dimensione antica, mentre è proprio moderna la fauna che lo abita. Un sacco di russi, per esempio. Al tavolo a fianco una famiglia festeggia alle 11 della sera il compleanno di un bambino, cui è stata regalata una ciambella per il mare. Uno del mio tavolo non resiste e gli scappa : “Sarà uno dei salvagenti della corazzata Potemki”. E poi stranieri, ma non sono la maggioranza. L’atmosfera è strana, antistorica e piacevole. E ci si mangia bene. Un giro può valere la pena (http://www.nessundove.net/2007/10/17/duelli-e-arringhe-per-amore-di-natalia/).

Il giorno dopo negozio due macchine per andare a cena da Barashka (
http://eng.novikovgroup.ru/restaurants/barashka/ ). Mangio riso pilaf con carne e verdura. Un sapore di fondo di oriente si mixa ad una base di Europa. Vengo da un party ai Magazzini Gum. Non ho visto niente tranne la Piazza Rossa, ma qui ci ho messo piede praticamente tutti i giorni, nonostante sia in esilio in un albergone totalmente autosufficiente ai confini della galassia. Se mi dovesse ricapitare di mettere piede a Mosca farò di tutto per andare al Kempinski (http://www.kempinski.com/en/hotel/index.htm?country_group=2&id=25&tab=360&file=8556#5). Ti affacci e oltre la Moscova vedi le mura rosse del Cremlino e le cupole colorate di San Basilio. Non ho visto quasi niente. L’aria di Mosca è acre in gola. In questi mesi avrei molto voluto mettere piede a New York per dare un occhio al centro dell’impero sotto lo stress della crisi. E invece finisco a Mosca. Ma le cupole di San Basilio saldano il conto. E bastano ampiamente per farlo andare in positivo.

sabato 4 aprile 2009

Verso Mosca. Al centro dei preparativi Margherita e il Maestro.

“Avevo una copia del ‘Maestro e Margherita’. Non ho idea di dove sia finita”. Gianfranco mi guarda: “Io ne ho una e so anche dov’è. Anche io quando sono andato a Mosca ho pensato dovevo portarla con me. Te la presto”. Dopo un paio di giorni se ne ricorda, comincia una ricerca disperata da cui esce vittorioso. “Ma è un libro con la copertina rigida – gli dico – il mio era di quelli economici. Me lo ricordo benissimo”. Unica certezza dei preparativi per Mosca, dove devo andare per lavoro 3 giorni, è Margherita e ovviamente il Maestro. “Secondo me devi almeno tentare di fare un giro senza meta, andare nella zona medievale, assistere ad una funzione in una chiesa ortodossa”. Lo guardo senza speranza “Non credo riuscirò a fare nemmeno una di queste cose. Starò chiusa in un posto invece che in un altro e non avrò nemmeno la sensazione di essere altrove. Margherita e il Maestro però vengono con me”.

domenica 29 marzo 2009

Evochiamo Beppe mangiando cotoletta. In centro a Milano.

“Io vorrei una cotoletta”. Il cameriere guarda Silvia e poi me. La cena di lavoro è più o meno definita, ma margini di manovra ci sono sempre. “La costoletta alla milanese è una cosa serie – sottolinea l’uomo - se me la chiede uno solo si può anche fare, ma se devo prepararla per tutti non riesco”. Sono dalla parte di Silvia, un minimo faccio pendere la bilancia e insomma la cotoletta arriva. Siamo in centro a Milano. Metà febbraio freddo. È sera e noi siamo qui dentro al caldo della Trattoria milanese a mangiare cucina lombarda. Si sta magnificamente tra risotti allo zafferano, osso buchi, costolette alla milanese, certe polpettine deliziose che chiamano mondeghili, trippa e affettati mantovani. Mi piacciono soprattutto delle polpette un po’ lunghe avvolte in una foglia di verza che si mangiano con il risotto. Un bicchiere di rosso in più ci scappa.

Quando il fato decide di farti un regalo. Avrei barattato con piacere con una serata tutta per me questa cena di lavoro con più di trenta persone. E avrei sbagliato alla grande perché mi sarei persa qualcosa. Conoscevo da tempo tutti, tranne Silvia. Entra e le vado incontro dicendole il mio nome e lei tranquilla: “Sono una ventina d’anni che ogni tanto Beppe mi parla di te, sapevo ci saremmo incontrate prima o poi”. Sorrido e la catturo, dandole la sedia vicina alla mia. Intorno regna sovrana la conversazione di lavoro. Noi ogni tanto ci immergiamo, ma poi ci ritagliamo degli spazietti per metterci in pari su cose degli ultimi vent’anni. La connessione è Beppe.

“Mi ricordo quando me lo presentarono – dice Silvia – un tipo davvero intelligente, l’ultimo allievo del Professor Barile. Tu quando l’hai conosciuto? E hai sue notizie?” Non riesco a risponderle subito perché vengo fatta prigioniera da una conversazione di lavoro che va avanti alla mia destra in cui entra anche Silvia. Il tema pubblico si esaurisce, mi volto verso di lei e continuo con quello privato. “Firenze vent’anni fa. Ero lì con una borsa di studio e Beppe faceva il ricercatore a Fiesole all’Istituto Universitario Europeo. Un bel tempo. Organizzava con la sua fidanzata feste molto riuscite nella sua casa. Un posto molto carino, un appartamento in una villa tra Firenze e Fiesole. Un po’ di anni dopo, non mi so più come ne’ perché, sono stata sua ospite a Londra. Viveva con amici e mi ricordo passammo un pomeriggio a comprare un wok per cucinare cinese. Era lui il cuoco, ovviamente. Poi ci siamo ritrovati a Roma. Gli ho fatto conoscere Gianfranco e lui a me Carmela. Ora vive in Cina, dove ha portato tutta la famiglia. Sai, ci sono fatti sicuri. Uno di questi è Beppe. Passano anni senza che ci si sente, poi a un certo punto ricompare”.

Chiacchieriamo e proviamo ad evocarlo mandandogli un sms sul suo vecchio numero italiano. Sarà disattivato, ma hai visto mai… Nessuna risposta, nessun segno per sette giorni. Una sera Gianfranco mi chiama dall’altra stanza: “ma sai chi mi ha chiesto l’amicizia su Facebook? Beppe”. “Sapevo sarebbe successo – gli dico – Silvia ed io lo abbiamo evocato e lui ci ha risposto”.

Vedrò Silvia ad aprile. Nuova occasione di lavoro, ma stavolta tenterò di ritagliarmi una intera serata. Abbiamo cose importati da inventare e nuovi riti da mettere a punto. Hai visto mai…

giovedì 26 marzo 2009

Due sedie per mio padre.

Ricevo da mio padre.
"La storia delle due sedie mi ha ricordato un aneddoto su Libero Bovio che probabilmente hai già da me sentito: figlio di un grande economista, Giovanni, cui è intitolata la piazza che a Napoli usiamo chiamare 'della Borsa' (anche se la Borsa non esiste più), era afflitto da una grassezza enorme, motivo per il quale, probabilmente, non proseguì gli studi pur essendo dotato di brillante intelligenza, ma preferì dedicarsi alla poesia dialettale e ai testi di canzonette. Era talmente grasso che gli occorrevano due sedie per sedersi. Sposò la moglie conquistato dal fatto che una volta questa ragazza gli disse: 'Liberà, ma po' nun è overo ca si chiatte!'"

domenica 22 marzo 2009

Portiamo Carla in ospedale. Al centro della notte.

“Secondo te sta morendo?” Sono seduta vicino a Carla e guardo il vecchio disteso sulla barella. “Mi pare ‘mbriaco – mi dice Mario – russa che è una meraviglia”. Il vecchio si gira, cambia tonalità e russa un po’ più forte. Siamo qui, in questo ospedale romano nel centro della notte, Carla, Mario, Adriano ed io. Lei si è sentita male al temine di una serata-evento. Stavo andando via e l’ho trovata accasciata su una poltrona con qualcuno che le teneva la mano. Un dolore le stringeva il lato sinistro del torace e scendeva inesorabile lungo il braccio. Ok, Carla è una donna e almeno fino ad ora siamo state un po’ più protette. Ma la preoccupazione corre sul filo della stanchezza. Insomma, quando Mario l’ha convinta ad andare in ospedale ho deciso di accompagnarla anche io. Poi ci ha raggiunto Adriano.

Sono seduta vicino a lei, che soffre in scarpe coi tacchi e abito elegante. Se sopravvivi a un’emergenza notturna in un ospedale romano sei davvero sano. Dopo un’ora Carla mi dice: ”Forse me ne vado a casa”. La guardo e mi vengono solo battute: “Sì è vero, è più comodo e piacevole morire tranquillamente a casa propria”. Anche Mario è sulla stessa tonalità dissacrante: “Mi dicono che il tizio sulla barella dorme spesso qui, forse potrei farmi dare una barella per un sonnellino anche io”. “Smettetela – guaisce Carla – se mi fate ridere mi fa ancora più male”. Adriano si aggira cercando falle nel sistema impenetrabile di accettazione. Non si riesce ad avere un’informazione, ne’ a capire per fatti concludenti se ti chiameranno e quando. Se pensi di esserti fatto un quadro arriva un’altra emergenza e devi ricominciare a definire a che punto sei. Adriano appura che forse Carla ha il cartellino giallo, ma arriva una ragazza sul cui piede una macchina è passata un paio di volte e certamente ha un cartellino rosso.

Due suorine parlano sottovoce in un angolo. Come i carabinieri si muovono in coppia. Parcheggiata su di una sedia a rotelle c’è la suora per cui sono qui. È tranquilla in un angolo, con aghi che le escono dalle mani e l’aria assente. Le due suorine parlano tra loro e non sembra si occupino troppo di lei. L’ubriaco sulla barella si gira e cambia ancora la tonalità del sottofondo musicale. Portano la ragazza con il piede maciullato dalla macchina. Sono con lei il probabile fidanzato americano, che ogni tre parole dice “fuck”, due ragazzi e una ragazza. Una signora con una borghesissima aria radical aspetta di capire cosa è successo al marito infartuato.

Esce un infermiere e siamo tutti intorno a lui. L’unica certezza è che non si può fare alcuna previsione. Mi chiama Gianfranco. Ha tentato di buttare giù dal letto un medico suo amico che lavora in questo ospedale. Il fortunato non rispose. Quando capisco che se resto è probabile mi debbano ricoverare dico a Carla che vado. Il giorno dopo trovo un sms delle 3.15: “Ho finito. Pare non ci sia niente di grave”. Poi la mattina incontro Mario: “Alle 3 ci hanno chiesto di aspettare. Alle 4 hanno fatto l’ultima prova e ci hanno mandato via. Ma certo che non ha nulla, è sopravvissuta a 6 ore in un ambulatorio d’emergenza?”

Pensavo in questi giorni ai libri di cui non avrei potuto fare a meno. Un posto speciale è per Àlvaro Mutis. “Ilona arriva con la pioggia”, “La Neve dell'Ammiraglio”, “Un bel morir”, “Amirbar”, “Abdul Bashur, sognatore di navi”. La forza di raccontare e rapirti. Ma questa ovviamente è tutta un’altra storia.

sabato 7 marzo 2009

Ancora due sedie per Marisa. Il centro dei desideri è spesso alla periferia del bisogno.

“Se mi segui ti faccio vedere gli ultimi acquisti”. Marisa cammina veloce dietro l’uomo di fatica che trasposta ben imballati due vecchi tavolini. Passiamo due saloni di rappresentanza dell’antico palazzo dove tutte e due lavoriamo. L’ho incontrata per caso sul corridoio e non ho potuto fare a meno di dare un’occhiata alle ultime cose antiche che ha comprato. In genere sono sedie. Marisa adora le sedie. Oppure tavolini, che le piacciono abbastanza ma non quanto le sedie. “Devi aver comprato una nuova casa in Sardegna. Quella di tua madre e la tua devono essere davvero piene”. Marisa guarda con amore le sue nuove cose: “Ma figurati, perché dovrei comprare una casa. Non ho i soldi per farlo e comunque non mi serve. E poi un posto per una sedia si trova sempre. Come per un tavolino, d’altra parte. Guarda che belli questi due. Li ho avuti davvero a un buon prezzo. Un vecchio antiquario sta chiudendo e dà via tutto”. Sono anni che ci diciamo più o meno le stesse cose su sedie e tavolini, ma lo facciamo con grande partecipazione. E anche una punta di divertimento.

Continuo: “Poi quello che proprio non arrivo a capire è che tutte queste cose ti piacciono, le compri e le spedisci in Sardegna. Che gusto ci proverai a comprare sedie e a spedirle da un’altra parte. Non ti ci siedi nemmeno. Non le guardi. Le mandi da un’altra parte”. Marisa non mi bada nemmeno, ha occhi solo per i suoi ultimi tesori. E io vado avanti, occhieggiando tra la plastica da imballaggio i due tavolini. “È chiaro che il centro dei desideri è spesso alla periferia del bisogno, ma questa esigenza compulsiva di sedie ha qualcosa di strano. Le compri, ma subito dopo le abbandoni. Immagino che, oltre alle sedie strategicamente piazzate nella casa di tua madre, devi avere un luogo deputato a custodire quelle che ti piacciono di più. Che so una specie di caverna di Ali Baba tutta piena di sedie, oppure una stanza della tua casa dove impilate ci sono quelle che contano per te”.

La sera siamo insieme all’apertura di un evento. Passa per caso un facchino con una pesante sedia sulle spalle. Lo guardo allibita e poi mi volto verso Marisa. Mi sorride: “Guarda che non c’entro. Sta sicuramente andando da qualche altra parte. Non ho comprato sedie oggi”. Segue con lo sguardo l’uomo per mettere a fuoco meglio. “Però sai che non è male”. La guardo ancora più meravigliata. Lei ride: “Ma che cosa hai capito. Dicevo la sedia. È proprio di quelle che piacciono a me. Ancora due sedie e poi smetto”.

Scherzi del destino. C’è chi è dipendente dalla coca e chi dalle sedie. Scherzi per divertirsi. Libri per spassarsi. Divertente e piacevole “Gli scheletri di Via Duomo” di Stefania Nardini. Un giallo semiserio nella Napoli degli anni ’70, dove i ragazzini giocano con quelle diaboliche palline clic-clac, si fuma e si beve molto caffè, Roma è un altro mondo e il protagonista è un eroico cronista del Mattino. Poi certo se uno cerca il pelo nell’uovo il giallo regge poco. Ma non è questo il punto.

Roma, semicentro o quasi periferia. Alta tecnologia e bassa brutalità: grandi contrasti tutt’intorno a casa mia.

“Una carta d’identità elettronica? Ma dove l’hai fatta?” Vitaliano mi guarda allibito. “A Roma – gli rispondo – al municipio di casa mia. Abito vicino alla Caffarella. Succede tutto lì, ormai”. Vitaliano è sempre più meravigliato: “Nel quartiere dove è stata brutalizzata quella povera ragazzina?” “Sì, proprio lì. È strano, in alcuni posti è molto borghese, poi attraversi una strada e sei nella terra di nessuno. Dietro casa mia hanno aperto un supermercato rumeno e gli autobus dalla Romania fermano due strade più avanti. Una volta chiesi a mia sorella di poter contare sulla sua domestica a ore. La ragazza era entusiasta di venire da me, era uno dei pochi posti di Roma che conosceva. Un po’ casa sua. Non lontano c’è anche Via Carroceto, la strada dove hanno fatto quella specie di spedizione punitiva contro quattro rumeni al kebab caffè. Lì dov’è terra di nessuno è come essere al village. Il pasticciere è indiano, poi c’è il kebab caffè e il ristorante siriano. Infine il bar gestito dal ragazzo cinese che si fa chiamare Alessandro. Poco più in là il mercato dell’usato: 1000 metri quadri di garage dove puoi comprare davvero di tutto, dalla lavatrice al divano, passando per la bicicletta e i vestiti di seconda o terza mano.

Vitaliano mi guarda: “E poi al municipio ti fanno la carta d’identità elettronica?” “Sì – gli confermo – e non da ora. Io l’ho fatta nel 2005. Ho anche un codice segreto per poter avere servizi connettendosi dai terminali più vari, ma questa funzione non è mai stata attivata. Insomma, un posto con un sacco di contrasti. Nei giorni prima che prendessero le due belve della ragazzina l’aria era un po’ pesante. Le donne la sera avevano un’aria spaventata. Anche il popolo degli immigrati era strano. Andavano a due a due, come per sentirsi più sicuri. I rom del piccolo campo non si vedevano in giro. Sai, hanno sempre assicurato molta tranquillità al quartiere: per trafficare ci vuole pace intorno, se no ti vengono a controllare. La certezza che i malvagi fossero stati presi è durata poco. Ora, che non si sa se i due arrestati sono davvero le due belve, l’aria è strana”.

Vitaliano è incuriosito: “Tutto nello stesso posto”? “Ma sì, semicentro o quasi periferia, alta tecnologia e bassa brutalità. Grandi contrasti tutt’intorno a casa mia. Dall’altra parte della Via Appia c’è la Valle della Caffarella. Pecore e dolci colline, il fiume Almone, dove a primavera i romani venivano a bagnare gli strumenti musicali, che ora è un rigagnolo abbastanza ferito. Templi romani trasformati in chiese, come Sant’Urbano. Ma anche anfratti dove animali selvatici costruiscono la loro tana in città. Vecchie grotte e fungaie. Una volta ci abbiamo portato dei parigini doc come Serge e famiglia. Non potevano credere che in un posto così centrale ci fosse un pezzo della campagna romana di Goethe e di Piranesi.

Vitaliano continua a chiedere: “E la terribile storia della ragazzina brutalizzata?” E io rispondo: “Ha molto pesato sul quartiere. E non solo perché qualcuno avrebbe voluto menar le mani. Sai è un posto dove la provenienza da paesi diversi è forte. Quando esco la mattina dall’altro lato della strada c’è una lunga fila di uomini che aspettano. Sono uno vicino all’altro, in piedi, guardano la strada e aspettano. Sono lì per un ingaggio anche solo di mezza giornata”. Vitaliano continua: “Ma la vicenda ha pesato su tutti?” “Sì, su tutti”. Una mattina mentre andavamo a scuola la piccola mi ha detto: “Guarda mamma che puoi arrivare solo davanti al vetro della portiera. Non puoi andare più avanti”. Ed io: “Scusa ma perché?” “Mamma non sai che è successo un fatto tremendo? Pensa hanno preso due fidanzati nel parco della Caffarella, al ragazzo hanno dato un sacco di botte e a lei hanno detto che se non lasciava lui la avrebbero ammazzata. E allora sai la direttrice è così preoccupata che nessuno può superare il vetro della portiera Carolina”.

La piccola cresce e io per non perdere colpi leggo anche libri per ragazze. Lei è ora alle prese con la serie delle avventure delle Tea Sisters, cinque topine avventurose legate a Tea Stilton, inviata speciale dell’Eco del Roditore e sorella di Geronimo Stilton. Le avventure sono davvero carine e intelligenti. La piccola ha già archiviato “I naufraghi delle stelle”, ambientato sulla luna, e “Mistero a Parigi”, dove moda e mistero creano un giusto mix. Io, invece, per essere un po’ più avanti ho letto “Destino di Adhara” di Licia Troisi. Fantasy autarchico per ragazzine di abbastanza buon livello. Avevo letto le “Cronache del mondo emerso” e mi era piaciuto. Bella la parte del mondo immerso, che vive sotto campane di vetro. Lo consiglierei per rispondere a quel bisogno di irreale di un adolescente. Ho letto anche una parte delle “Guerre del Mondo emerso”. E il giudizio è meno positivo. Il “Destino di Adhara” invece non mi ha convinto proprio. È immaginato come il primo di una nuova trilogia. È un po’ troppo macabro per adolescenti. Non si può escludere che il livello cresca. Ma da solo non regge.

lunedì 9 febbraio 2009

Al Centro dell’Europa. Tutto in ordine in Lussemburgo.

“Any liquid?” La ragazzotta che me lo chiede sa benissimo che ho dei liquidini nel mio piccolo bagaglio a mano. Dopo la borsa con le carte, la valigetta che mi accompagna è passata dentro la macchina che le ha guardato dentro. E lei una sbirciatina deve avercela data. Le sorrido dicendole che ho piccole cose. È chiaro che non posso non avere con me gli attrezzi di una donna occidentale in giro per lavoro: dentifricio, bagnoschiuma, crema dopo bagno, shampoo, latte detergente, una crema da giorno e una da notte. Ma tutto molto piccolo. Certo non puoi portare mezzo litro d’acqua e quindi nemmeno 500 ml di tonico. Ma anche negli aeroporti dove sono davvero attenti le confezioni piccole passano senza problemi. Non è il liquido in sé a dare problemi ma la quantità. Se non arrivi a una certa dose come puoi preparare un mix per far saltare tutto in volo?

La ragazzotta mi guarda e mi chiede se può aprire. Mentre le rispondo “Of course”, penso che potrei aver lasciato delle forbicine. Forse cercheranno quelle. In tutti gli aeroporti mi hanno portato via forbici. Ora sto più attenta, ma certo posso averle dimenticate. Lei però punta proprio ai liquid. Apre e va dritta alla trousse di toilette. Mi guarda e io le faccio segno che può andare avanti. Tira la chiusura e comincia a cercare. Prende le bottigline e le mette da parte. Si ferma due volte sulla crema idratante. È solida, di liquido non ha proprio niente. Ma alla fine finisce tra i liquid. C’è proprio tutto. Mi guarda. Sono un po’ seccata e non le sorrido più. La ragazzotta si volta, prende una bustina trasparente e ci infila tutte le mie cose. Preme accuratamente sulla semplice chiusura. Non riesco proprio a capire cosa ne farà. Me lo sto ancora chiedendo e la ragazzotta apre la trousse e sistema dentro con precisione millimetrica la bustina trasparente. Poi chiude la borsetta per la toilette e la sistema accuratamente nella valigia, che chiude con attenzione. La guardo e le sorrido. Insomma, tutto in ordine in Lussemburgo. Non è una questione di sicurezza ma di accuratezza. Avrei voglia di invitarla a fare un salto a casa mia a Roma. Delle sere per entrare ci vorrebbe un macete per farsi largo tra libri, carte e giocattoli.

Meno di un giorno in Lussemburgo e poche idee molto confuse. Ho visto solo due alberghi di davvero buon livello, il Royal e il Parc Beaux-Arts. Sono stata ad una vernice interessante. Ho cenato per lavoro in un posto speciale come il Restaurant Clairefontaine. Ma non ho le idee chiare. Mai vista una densità di gioiellerie come qui. Una ogni tre negozi. Almeno in centro. Il mio albergo, il Parc Beaux-Arts, è davvero di charme nel senso migliore. Ma non riesco a capire gran che dello stato delle cose. Un paese da fiaba al centro dell’Europa o il centro dell’Europa che conta travestito da paese da fiaba? Non credo ci si diverta molto, a meno che non si facciano mestieri per cui ci si diverte comunque e dovunque. Come dire: “una noia mortale a meno che non si faccia il faccendiere”? Può essere, ma non mi è chiaro.

sabato 7 febbraio 2009

Alla periferia di una vita disonesta

“Vuoi una spremuta d’arancia? Ne sto facendo una per la piccola. Ne faccio una anche per te?” “No, grazie. Non sai quanta spremuta ho bevuto oggi. Proprio non mi va”. Gianfranco parte sempre da lontano. “Ho cominciato i sopralluoghi per questo film che mi piacerebbe fare. E sono tornato in questo posto incredibile. Una specie di bar – ristorante – taverna in un paese vicino Roma. La gestisce questo tipo che si è ritirato dalla vita attiva. Lui sta lì, fa il ristoratore, ma non ti dico la storia”. “Scusa ma che c’entra con la spremuta?” “Beh, continuava a offrirmi caffè che io rifiutavo. Allora ha deciso che almeno la spremuta dovevo accettarla. E ho cominciato a bere succo d’arancia parlando con lui”.

Conosco i miei polli e allora chiedo: “Scusa, in che pasticci si è messo? Terrorismo o cosa?” “Ma no – mi risponde Gianfranco – direi delinquenza comune. Mi ha detto di aver fatto parte della banda della Maglianella o qualcosa del genere”. “Ah, una cosa tranquilla” provo ad aggiungere.

“Ma la storia più incredibile è che si è tirato fuori per miracolo. E tutto solo per una piccola bambina”. “Raccontami come è andata”. E Gianfranco ricomincia: “Mi sembra di aver capito che lui frequentava ambienti, come dire, un po’ sui generis. Portava avanti dignitosamente la sua posizione di attivo frequentatore della periferia di una vita disonesta. Poi un giorno gli affidano questa piccolina, figlia di amici. Avrà avuto quattro anni. Il padre era finito in galera e la madre a disintossicarsi in uno di questi centri per tossicodipendenti. Insomma lui dice di essersi salvato per accudire la piccola. Mi ha detto: ‘Facevo la vita de na’ donnetta. Facevo spesa, cucinavo, la mannavo a scola, tutto senza famme nota’. E senza sape’ ne’ come, ne’ perché, mi so’ trovato a vive na’ vita normale’. La bambina è stata con lui 8 anni. Poi i padre è uscito dal carcere e l’ha presa con sé. Ma la piccola è stata la sua salvezza”. “E ora, quanti anni ha?” “Mi sembra 16 anni. Lui continua a considerarla un po’ sua figlia. E un po’ la sua fortuna”. C’è qualcosa che non mi torna della sua vita attuale. E allora chiedo: “E adesso com’è che si tiene fuori dai guai?” Gianfranco mi guarda tranquillo: “Deve esserselo chiesto anche lui, perché mi ha detto: ‘Qui me so’ portato mi madre…Se no sarebbe n’ orgia continua’. Deve essersi fatto la domanda e anche dato la risposta”.

domenica 25 gennaio 2009

Periferia. E può anche accadere che arrivino degli angeli

“Era agosto. Tu non c’eri. Ero dalle parti del Laurentino”. Gianfranco parla veloce. “Mi metto in macchina per andare a Sabaudia. Primo pomeriggio disabitato, di quelli che è più facile trovare qualcuno nel mezzo della notte. E resto fermo senza benzina nel bel mezzo del nulla. Ma no, magari del nulla, nel bel mezzo della periferia più periferica. E penso: posso restare qui così per un tempo infinito”. “E invece?” Gli chiedo.

“E invece sono arrivati due attrezzi tremendi. Li vedo e penso che forse dovrei avere paura. Orecchino, tatuaggi e quella voce, quella voce roca e profonda, tipica di un modo di essere romano. Bah, non ci crederai ma erano angeli. Hanno accostato e si sono fermati. Con una cortesia un po’ ruvida mi hanno confortato ed aiutato. Mi hanno accompagnato al più vicino benzinaio. Poi mi hanno riportato alla mia macchina ferma nel deserto metropolitano. E solo dopo che si sono accertati che era tutto a posto si sono smaterializzati senza tante storie sulla loro vecchia vettura. Erano angeli, sicuro”.

“Ti credo. Anche a me è successa una cosa più o meno simile. E ci doveva essere un angelo in servizio anche in quella periferia. Londra, inizio anni ’90. Sono ospite da Clarissa – la mia cugina
british – che temporaneamente è in una casa ben lontana dal centro. Doveva essere aprile ma era freddo e umido. Notte, piove e mi trovo a camminare in questa periferia sconfortante. Mi perdo. Vengo riportata a casa da un energumeno nero come la notte. Mi riaccompagna a casa con una cortesia principesca nascosta sotto modi primitivi. Non mi indica solo dove andare, fa la strada con me perché potrei non trovare facilmente la via. Anche io sono sicura fosse un angelo”.

Per la serie libri interessanti: “Il pane di ieri” di Enzo Bianchi. Un libro semplice semplice, che è il suo vero pregio. Però, però forse non basta, e poi e poi…c’è questo spirito piemontese che non tocca le corde del mio immaginario più remoto. Padre Bianchi si capisce che è un grande, fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose è anche molte altre cose. Un grande cuoco, per esempio. Ha venduto più di 800mila copie con un libro semplice e poetico. Sono anche convinta che “il pane di ieri è buono domani”, un dei principi di Padre Bianchi, sia fondato. E non solo metaforicamente. Però certo questa asciuttezza piemontese che diventa regola di vita e di felicità si sta parecchio stretta.

Periferia di sera – Roma, Tuscolana dal lato del Mandrione

“Scusi per arrivare a Via Columella vado bene di qui?” “Mi sembra che ci passo la mattina col motorino. Ma potrei sbagliarmi. Non lo so”. La giovane donna che sta parcheggiando lo scooter è l’ultimo essere umano che trovo sulla strada. Sono sola. Venerdì sera freddo a Roma. Cammino verso il più scuro e il più deserto. Ogni tanto un cane abbaia. Vado veloce ma non troppo. Se una belva di queste che non si vedono ma si sentono dovesse uscire sulla strada non avrebbe nessuna voglia di inseguirmi perché non corro. A che servirà ripensare ora alla regola che ‘se incontri un leone non devi correre ma camminare lentamente’? Sto ben attenta a restare sul ciglio della strada. Più verso il centro che vicino all’ingresso delle case. Dopo una villetta abusiva viene una palazzina. Poi un bel palazzo popolare anni ’30 con un lato coperto di tubi per una ristrutturazione. Ottant’anni dopo anche una costruzione irregolare e non autorizzata può essere bella. D’altra parte lo scempio edilizio intorno trasforma il decente in magnifico. Poi un campetto abbandonato un po’ spelacchiato.

Forse mi sbaglio ma ho la sensazione che i lampioni diventino più radi. Ogni tanto passa una macchina. E’ un segno di presenza di umani che mi rassicura, ma sposto la borsa con i soldi verso le case e quella con i giornali dal lato della strada. Vado più veloce. Poi sulla destra mi appare una stazione dei Carabinieri. Rallento e assaporo di sentirmi sicura. Anche questo spazio di tranquillità sparisce. Guardo il foglio con la mappa di Google ma non mi trovo. Squilla il telefono: “Gianfranco devo dirti che ho quasi paura. Non c’è un’anima e non so ancora quanto devo camminare. Non pensavo fosse così”. La risposta è tranquillizzante: “Guarda che la zona è davvero tranquilla. Non mi ricordo sia mai successo qualcosa da quelle parti. La conosco bene, ci ho girato un sacco di volte. Io sto arrivando. Un quarto d’ora e sono lì”.

Lo scorrere del tempo di Gianfranco segue percorsi diversi e so che non arriverà alla pizzeria dove sono diretta prima di tre quarti d’ora. Ma averlo sentito mi ha rassicurata. Vedo un ristorante e mi ci fiondo. Apro la porta: “Scusi Via Columella?” “Segua la strada, poi in fondo giri a destra ed è arrivata”. Dentro è semideserto, ma l’ambiente è familiare. Quanto vorrei fermarmi qui. Vado avanti. Arrivo in fondo alla strada e giro seguendo le indicazioni. Sarà un quarto d’ora che cammino e mi sembrano tre ore. A sinistra un muro alto proteggere la privacy dell’indefinibile. Chi sa che cosa c’è dall’altra parte. A destra palazzine di tre, quattro piani.

Continuo a camminare e poi la vedo, la pizzeria-meta. Si devono essere sentiti così Hansel e Gretel quando hanno raggiunto la casetta di marzapane. Mi sembra il posto più bello del mondo mentre apro la porta ed entro. Dentro il locale è grande e caldo. E’ stato una grande falegnameria in una vita precedente. Ora qui si mangia, si beve, si festeggia e si fa il karaoke. “Guarda che mo ce devi fa’ cantà”. Si capisce che è vestita a festa la ragazzina. Il giovane che ha in mano lo scettro del comando, ossia il microfono, ci prova a resistere. “Ma l’amo fatto mo ‘A te’. Nun potemo sempre fa’ Giovanotti”. Chi la dura la vince. Va un’altra canzone. Tempo tre minuti e cinque voci stonate urlano con quanto fiato hanno in gola e sentimento nel cuore ‘A te che sei l’unica al mondo…’.